venerdì 8 aprile 2011

La potenza (e il dolore) del linguaggio


Riportiamo uno stralcio del dibattito nato durante una lezione di Giorgio Vasta della prima edizione del corso di editoria Il lavoro editoriale: una vera e propria intervista sulla scrittura, sulla potenza della lingua, della sintassi, della singola parola, di un solo segno di punteggiatura.



Depotenziare una parola è un’azione che altre parole non possono fare. Nessuna parola è dotata di una forza tale. 
A ogni parola, a ogni linguaggio corrisponde una conseguenza.
Non è l’incomunicabilità il male del ventennio berlusconiano ma la troppa comunicazione che ha annichilito la conseguenza. Bisogna restituire la parola alla parola e all’importanza della parola, quindi alla sua conseguenza. La violenza attuale sembra essere spronata da situazioni marginali, in un modo o nell’altro. La marginalità va definita e la sua definizione conduce a una periferia cittadina, a una periferia politica, culturale, affettiva. Nel tuo libro la violenza, al contrario, è una scelta deliberata e priva di esimenti. Nimbo non ha una collocazione sociale evidente, cresce in una famiglia più che anaffettiva asettica e Palermo non ha la solita connotazione selvaggia, è solo un rimando ad alcune di queste forme di marginalità, geografica e politica, ed è infine una città identificata davvero soltanto dalla presenza di randagi. Anche i dialettali sono un’idea della protolingua. Potrebbe essere qualsiasi altra città non-protagonista. Ma il punto che più mi interessa è un altro. Quanto invece la violenza è determinata dalla potenza della lingua? Si arriva alle scelte più definitive attraverso un ragionamento dialettico inappuntabile (che prescinde dalla logica) e che sfinisce le ritrosie. Credo.

G. Credo che una prospettiva di questo genere possa avere un senso proprio perché all’interno del linguaggio si compie, secondo me, un’esperienza che ha a che fare anche con la violenza e con l’esasperazione, e Nimbo e i suoi compagni fanno del linguaggio un’esperienza orientata in questa direzione. La produzione di linguaggio, quando non si limita a essere la costruzione di quella specie di ponte di corda che collega le persone tra di loro – di corda nel senso che non è un ponte stabile, non è né cemento né legno, è una cosa che oscilla e ti fa correre di continuo il rischio del fraintendimento – quando non si limita a essere questo è l’edificazione di un luogo. In questo luogo puoi stare bene o puoi stare male. Quando venivamo interrogati, a scuola, e non eravamo preparati il linguaggio che costruivamo era un luogo dal quale volevamo allontanarci al più presto possibile. Era come se le parole fossero carboni ardenti sui quali cercavamo di passare sopra di corsa per andare dall’altra parte e liberarci dall’incandescenza. In altre circostanze, invece, il linguaggio non è soltanto costruzione di una comunicazione ma è anche un’esperienza di piacere. Il piacere di stare dentro il linguaggio. Immaginatelo in termini fisici: produco un mondo di parole che amministro io, un mondo che posso governare, e più vado avanti, più continuo a produrre linguaggio, più impedisco che qualcosa accada, per lo meno finché non accetto il silenzio o non interviene qualcosa a farmi tacere. Tutto ciò che è ingovernabile, ovvero tutto ciò che non è quel linguaggio che tu direttamente produci e controlli, viene progressivamente spinto verso i lati: viene emarginato consolidandoti nel tuo delirio che ti porta a pensare che tutto possa essere parole e che quindi tu possa o debba produrre parole all’infinito. La situazione di chi prova piacere per quello che sta dicendo, e di chi non riesce a sopportare di tacere, è quella di chi vuole continuare a stare lì dentro. Non c’è un progetto, anche perché non c’è più una direzione. A un certo punto ti accorgi che se all’inizio il tuo discorso ha avuto uno sviluppo lineare, da un certo momento in poi funziona come il sasso nello stagno, per cerchi concentrici. Procede in quella maniera e può procedere all’infinito (finché si è in grado di produrre linguaggio si possono allargare cerchi). In tutto questo, nella produzione di un linguaggio che cerca di dilatarsi il più possibile comprimendo l’ingovernabile verso il margine, c’è un elemento violento. Ancora una volta, però, si tratta di una violenza naturale. Nel romanzo, per Scarmiglia la violenza è strutturale ai fenomeni (il seme che si rompe) perché molti fenomeni, se osservati in una determinata maniera, possono avere a che fare con la violenza. Credo che ci sia stato un momento nel quale ho scoperto che il linguaggio, un determinato tipo di linguaggio, poteva generare dolore. Me ne sono reso conto facendo attenzione a quelle relazioni attraverso le quali costruiamo o distruggiamo la nostra identità, vale a dire le relazioni parentali. A generare dolore, per esempio durante un litigio con i genitori, non era tanto il contenuto di ciò che veniva detto ma il fatto che il periodo fosse ineccepibile dal punto di vista della costruzione sintattica, edificato a forza di subordinate. Attraverso la costruzione di quel castelletto di parole era come se dicessi: “Io non sto con voi, sto da un’altra parte, vi sto dichiarando estraneità attraverso la competenza linguistica.” La risposta che ricevevo era sincopata, ravvicinata, esclamativa. Era come una richiesta: riduci, diminuisci, riavviciniamoci attraverso battute più brevi. 




Come si coordina la produzione di linguaggio, di modelli di linguaggio con la sovrapproduzione di storie? 

G. Le strutture narrative – i che cosa – sono grossomodo una decina; i come, quindi le modalità di messinscena, sono un numero illimitato. E a determinare la qualità di una narrazione è il come. A un certo punto gli sceneggiatori americani si sono resi conto che potevano condensare il novanta per cento delle storie raccontate, non soltanto al cinema ma più in generale nel corso dei millenni, in tre parole: boy meets girl. Quello che succede in quasi tutte le storie narrate è boy meets girl: una funzione narrativa maschile incontra una funzione narrativa femminile. Questa struttura da sola esaurisce la maggior parte delle storie raccontate. La carne che sta intorno a questo scheletro base è però ogni volta talmente diversa da non farci accorgere che I promessi sposi, Romeo e Giulietta, Titanic, Anna Karenina e Cappuccetto Rosso non fanno altro che riproporre il boy meets girl. Quando periodicamente sulle pagine dei giornali leggiamo di critici che si lamentano del fatto che il romanzo è morto, che sono finite le storie raccontabili, che è già stato detto tutto, non dobbiamo dimenticare che queste valutazioni riguardano esclusivamente il versante delle strutture narrative, e non invece quello che più conta e ci interessa, ovvero delle modalità di messinscena. Pensiamo a tutto il lavoro di remake che stanno facendo da un po’ di anni a questa parte in teatro e al cinema; pensiamo a quanto Shakespeare sia stato ripreso e rimesso in scena: se cambia la modalità di messinscena cambia l’opera nella sua sostanza. Un esperimento limite, a questo proposito, è quello di Gus Van Sant che rifà Psycho. Tolta l’attualizzazione, se proviamo a confrontare i due film – gli stacchi di montaggio, la prospettiva delle inquadrature, l’ordine delle scene – il remake sembra quasi un esercizio calligrafico, da copista. In realtà, rifacendo il film di Hitchcock cinquant’anni dopo, Gus Van Sant misura, a partire da segni minimi, il tempo che è trascorso. Quando nel film di Hitchcock abbiamo la scena in cui Anthony Perkins (Norman Bates) sale le scale inquadrato dal basso, ciò che può permettersi il film girato in quel momento per far affiorare quello che i critici hanno molto discusso, ovvero l’omosessualità del protagonista, si traduce in possibilità ridottissime; Gus Van Sant, invece, fa ancheggiare l’attore che interpreta Norman Bates, e in un semplice movimento di fianchi sentiamo i gradi enormi e diversissimi di libertà e di possibilità espressiva che si sono creati nel corso del tempo.

Giorgio Vasta curerà il prossimo seminario sulla narrazione autobiografica.