venerdì 14 marzo 2014

Il giornalismo culturale

 di Francesco Pacifico

(The New York Times, 1942)

Vi presento alcuni degli scrittori e giornalisti che verranno a parlare al corso di Giornalismo Culturale.
Il corso ha un approccio decisamente pratico: vi faremo parlare con chi scrive su giornali riviste e blog culturali, e con chi li fa. Entrambe le categorie sono attrezzate per rispondere alla domanda: quanto pagano? E tutti gli invitati hanno una storia, un percorso non casuale: il giornalismo culturale non ha l’equivalente dei bestseller per saltare le tappe della formazione. Ognuno degli invitati ha alle spalle anni di gavetta e frustrazione, e il giornalismo culturale non è materia da reality, da competizione isterica. È un mondo dove si compete, sì, per i pochi posti liberi, per l’attenzione, per le differenze ideologiche, per le antipatie personali, per l’invidia, ma non si impara niente se non si riconosce che c’è qualcuno che lo sa fare e che da qualcuno si può imparare. Anche se quel che scrive non ci piace, anche se non siamo d’accordo, anche se ci manda a comprare libri che non sono nelle nostre corde.
Ho invitato un po’ di giornalisti che stimo. Chi conosce i nomi in questione sa che non ho invitato tutto l’arco costituzionale, ma menti affini, con cui collaboro da tempo. Credo non sia un limite: sono tutte persone competenti e che sanno cose che voi umani.
Oggi ne presento tre: Nicola Lagioia, Francesco Longo, Tiziana Lo Porto.


Nicola Lagioia (Bari 1973), ha pubblicato i romanzi Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (vincitore Premio lo Straniero), Occidente per principianti (vincitore premio Scanno, finalista premio Napoli), Riportando tutto a casa (vincitore premio Viareggio-Rèpaci, vincitore premio Vittorini, vincitore premio Volponi, vincitore premio SIAE-Sindacato scrittori). Dirige nichel, la collana di narrativa italiana di minimum fax. È una delle voci di Pagina3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Scrive per diversi quotidiani, settimanali e riviste, tra cui Lo Straniero, Repubblica, Orwell, Il Venerdì di Repubblica, Repubblica XL. Nel 2013 è uno dei selezionatori della Mostra del Cinema di Venezia. 
Lagioia parlerà con noi del lavoro intellettuale nel suo complesso: come si interviene nella vita culturale lavorandoci a vario titolo, dalla selezione e conduzione della rassegna stampa di Pagina 3 alla radio all’animazione del blog minimaetmoralia, dagli interventi scritti sullo stato della cultura ai pezzi su Freak Antoni.

L’arte del racconto – tradizione e innovazioni, da J.D. Salinger ad Alice Munro
La mole di un romanzo annacquerebbe per forza di cose, fino a estinguerne gli effetti, il dialogo segreto tra gli elementi che fanno brillare di luce propria le short stories. Questo uno dei motivi per cui il racconto non è un sottogenere né una riduzione in scala delle grandi narrazioni, ma una delle forme più interessanti in cui è dato di incarnarsi alla letteratura d’invenzione. Si tratta, in definitiva, di un contenitore pressoché unico per l’organizzazione del pensiero. Ho prima parlato di tensostruttura. Ma l’idea che forse meglio ne riassume il funzionamento è quella del modello atomico. Se i romanzi sono grandi cattedrali nelle quali ci aggiriamo alla ricerca di un punto d’equilibrio (“il centro segreto”, come lo definisce Pamuk), le particelle elementari di un racconto sono ognuna responsabile dell’equilibrio dell’altra. (leggi tutto)


La Grande Bellezza: un piccolo Gatsby
Ecco allora a inizio film la stessa ma proprio la stessa epigrafe di Céline che da ragazzi ricopiavamo sul diario del liceo (“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica…”) Ecco Toni Servillo che interpreta Toni Servillo che interpreta Jep Gambardella. Ecco il povero Roberto Herlitzka costretto a rifare un brutto se stesso nei panni di un cardinale con la fissa della gastronomia (è pur sempre il grande attore di teatro prestato al cinema per come lo immaginerebbe la moglie di un qualunque sindaco di Roma in area PD non dopo averlo visto effettivamente recitare a teatro ma dopo averne letto un’intervista su «Io Donna» e sulla base di questa aver modificato la percezione teatrale effettivamente consumata all’Argentina). (leggi tutto)

Simone Weil, “La persona e il sacro”
L’esempio portato dalla Weil è quello del ladruncolo semianalfabeta che balbetta intimidito davanti al giudice, il quale, seduto comodo sopra il suo scranno, è pronto a colpirlo col maglio di una legge consustanziale al mondo che l’ha portato a errare. Se le vittime della violenza – anche di quella istituzionalizzata – non hanno voce, a propria volta, quasi immancabilmente, “i professionisti della parola sono del tutto incapaci di dargli espressione” dal momento che i loro privilegi (i gerani della sovrastruttura) si fondano sullo stesso potere che è l’origine della violenza. Quando il ceto intellettuale sta difendendo pubblicamente gli ultimi, non sta forse, nove volte su dieci, lottando per ribadire la propria forza? (leggi tutto)

Rogitare anziché investire in cultura a Roma (e altrove). La miseria dei privati ricchi.
Ma io mi chiedo anche: e i privati di peso? I grandi imprenditori? Quelli che potrebbero investire capitali importanti? I romani benestanti o facoltosi, insomma, quelli che hanno sempre disertato, che si lamentano di continuo dei mancati primati culturali della città ma poi preferiscono rogitare anziché investire? Giulio Einaudi era il figlio del Presidente della Repubblica e Giangiacomo Feltrinelli proveniva da una delle famiglie più ricche d’Europa. Il senso di colpa del benessere e il complesso della cultura un tempo facevano miracoli. Possibile che la grande borghesia romana, il generone e i progressisti pieni di immobili intestati o ereditati, i vecchi e nuovi ricchi minimamente sensibili e alfabetizzati siano così gretti, così privi di orgoglio e di ambizione, amino così male la propria città e ritengano di doverle così poco da non mettere la mano al portafogli per dare vita a una scena editoriale e culturale più ambiziosa? (leggi tutto)
 
Non ai tea party né ai radical chic: Minervini, Pallaoro e gli altri
La cosa stupefacente, guardando le pellicole di questi registi nati e formatisi in Italia prima di trasferirsi altrove (Minervini a Houston, Pallaoro in California, Pasolini da tempo in Inghilterra) o coltivare il vizio di immergersi in altre culture (Cremonini scrisse Private, il film sul conflitto israelo-palestinese che Saverio Costanzo non poté portare all’Oscar perché non era recitato in italiano) è che in nessuna delle loro inquadrature troverete quelle chiassate da strapaese bisognoso di continue gite a Chiasso, quel politically correct che è la foglia di fico della sinistra più baronale, quegli inutili avvitamenti di chi crede che una ben difesa marginalità supplisca alla mancanza di talento – sognando Lynch e Cassavetes, ovvio, ma poi dimenticando che il primo, quando ci fu da esordire con Eraserhead, all’attesa-pretesa di un contributo MIBAC preferì impegnarsi la casa – colpevoli di dotare l’apprezzamento estetico (“bello quel film…”) di una costante e odiosa sordina d.o.p. (“…per essere italiano”). (leggi tutto)

Trent’anni di “Siberia”
Così, contro ogni logica, dalla porta girevole di un luogo che i critici musicali ancora si ostinano a chiamare Firenze (mentre è ovvio, col beneficio della distanza si deve più razionalmente parlare di un varco spaziotemporale aperto su una Manchester simile a quella che aveva visto la nascita di Unknown Pleasures ma di fatto mai esistita, di una Berlino simile a quella di Low e tuttavia anch’essa frutto di fantasia, di una Mosca e di una Pietroburgo saltati a pié pari per andarsi a rifugiare sotto il freddo manto del più vero e immaginario tra i deserti europei) venne fuori questa cosa oscura, misteriosa, magnetica, incomprensibile, struggente, che con il tempo ci siamo educati a chiamare Siberia. (leggi tutto)

Francesco Longo (Roma 1978), giornalista, è autore del libro Il mare di pietra. Eolie o i 7 luoghi dello spirito (Laterza 2009) e di Vita di Isaia Carter, avatar (Laterza 2008, con C. de Majo). Ha pubblicato la monografia Paul de Man (Aracne 2008). Collabora con La lettura del Corriere della Sera e con le pagine culturali del quotidiano Europa. È redattore di Nuovi Argomenti. Longo ha una dote rara in Italia: quando recensisce un romanzo, riesce anche in poche righe a farci capire come è scritto. Mettendo da sempre un gusto intransigente per la scrittura e la letteratura al di sopra di ogni esigenza civile o intellettuale, Longo usa la lingua dei romanzi che recensisce per farla sentire al lettore. Preferisce questo metodo alla più comune usanza del recensore italiano, sia quello popolare che quello intellettuale, di chiedere che un libro lo si legga sulla fiducia, perché ha i temi giusti o le atmosfere giuste. Ecco qualche esempio delle sue recensioni, insieme ad alcuni pezzi di viaggio in cui si mette sulle tracce dei suoi miti letterari, da Agassi a Cape Cod.

L’esordio interrotto di Giovanna De Angelis
Come i grandi scrittori, Giovanna De Angelis non scorda mai di dirci come sono il cielo, il vento e la luce («c’era un cielo bianco, di gesso», «c’era un vento pungente che le gonfiava i capelli», «dormono smarriti in quella luce blu. Poi arriverà un nuovo scatto e le strade si divideranno, ciascuno ritroverà i suoi passi da mettere in fila e il mattino tornerà lattiginoso e opaco, come qualsiasi altro mattino di febbraio»). (leggi tutto)

Il battello di Melville e la scialuppa di Crane
A bordo della scialuppa ci sono un capitano, un macchinista, un giornalista e un cuoco. Tra loro nasce un’amicizia speciale: «Sarebbe difficile descrivere il sottile legame che si era stabilito tra quegli uomini in mare». Le onde sono spaventose, in alto il sole si sposta nel cielo con indifferenza. Arrivano inevitabilmente dei gabbiani – uno dei quali «aveva assunto la forma di un tetro e raccapricciante presagio» – e poi si affaccia anche un albatros. (leggi tutto)

La Parigi del Roland Garros
Come tutta Parigi, anche il Roland Garros è un monumento a se stesso. Così come tutta Parigi è immobilizzata in un eterno Settecento, con aree verdi con l’aria di parchi termali per bocciofili, anche qui non si aspettano nuove stelle della racchetta, perché la nostalgia pervade tutto. Al Roland Garros si celebra solo il passato, gli amanti del tennis preferiscono visitare il Museo interno piuttosto che squagliarsi al sole delle partite d’oggi. Pare dunque che per il tennis siano più vitali i nuovi campionati in Oriente (come gli eccentrici e visionari tornei di Doha o Dubai), con pubblico multietnico e le scolaresche di bambini filippini che sgranano gli occhi, mangiano pizza e hot-dog sugli spalti e tornano a casa felici. Qui invece, il tennis non è uno sport da appassionati ma da geologi del costume, da amanti del déjà vu, e comunque nessuno va via senza un oggetto da collezione: cravatte e gemelli firmati, tazze e tazzine, ombrelli, t-shirt e taccuini col mitico logo. Il Roland Garros è un amabile fossile in una città col cuore di pietra. (leggi tutto)

Il mito di Cape Cod
Per il New England, Cape Cod è il corrispettivo di Palm Springs per i californiani, l’altro posto in cui, avrebbe detto Thoreau, è possibile «gettarsi tutta l’America dietro le spalle». Entrambi sono luoghi del desiderio. Uno selvaggio (Cape Cod), l’altro consacrato al riposo assoluto (Palm Springs). Entrambi sono: decadenza e indolenza. Bret Easton Ellis faceva dire ad Anne: «è così talmente invitante nuotare e stare distesi accanto alla piscina, sbronzarsi o fare una qualsiasi delle innumerevoli cose decadenti che uno fa a Palm Springs». Per Stuart Nadler: «A Bluepoint non c’è molto altro da fare se non starsene seduti in veranda, o in giardino, o in spiaggia, al sole, con un libro e un bicchiere di tè freddo o una radio che trasmette la partita dei Red Sox – da ascoltare stesi su un’amaca». (leggi tutto)


I ♥ polpettoni – Il fascino irresistibile dei polpettoni letterari
«Prima che fosse finito il concerto, era sicuro che quella fosse la sola fanciulla che avrebbe sposato». Oppure: «Il vento primaverile, piovoso e lugubre, giungeva da luoghi paurosi e gridava intorno alla casa come un uomo che piange il suo amore». Ci si arrende, ciclicamente, al fascino irresistibile dei polpettoni letterari. (leggi tutto)

Mica tanto Open
Per arrivare a casa di Andre Agassi bisogna percorrere Las Vegas Boulevard verso sud fino a quando le quattro corsie di Tropicana Avenue non la tagliano perpendicolarmente. Proseguendo verso est lungo Tropicana, prima che l’asfalto evapori in un vacillante miraggio metropolitano, si incontra la fermata del bus 201a. Il biglietto si fa a bordo: andare da Agassi costa due dollari. Ma adesso, due ragazze coi bikini bianchi stanno giocando a Beer pong. Saltellano alle estremità di un tavolo rettangolare su cui hanno schierato una decina di bicchieri di birra riempiti a metà. Lanciano a turno una pallina. Fanno centro, sbagliano, sorridono. Come tutti, sono immerso nella piscina dell’hotel e fa talmente caldo che nessuno pensa a nuotare, al massimo ci si può passare una mano bagnata tra i capelli. Le foglie delle palme si solleticano altissime, i grattacieli ondeggiano nell’afa del primo pomeriggio, una cascata artificiale si tuffa oltre i lettini. Qualcuno in aereo mi ha chiesto perché tornare a Las Vegas se c’ero già stato. (leggi tutto)


Tiziana Lo Porto è nata a Bolzano e ha vissuto ad Algeri e Palermo. Abita tra Roma e New York, dove traduce e scrive di libri, cinema e fumetti per D, La Repubblica e Orwell. Ha tradotto, tra gli altri, Evita lo specchio e non guardare quando tiri la catena e Seduto sul bordo del letto mi finisco una birra nel buio di Charles Bukowski (minimum fax, 2002), Radicalchic di Tom Wolfe (Castelvecchi, 2005), La classe di François Bégaudeau (Einaudi Stile Libero, 2008) e In stato di ebbrezza di James Franco (minimum fax, 2012). Insieme a Daniele Marotta ha pubblicato il graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (minimum fax, 2011). 
Tiziana Lo Porto ha iniziato prestissimo a scrivere di libri e di qualunque cosa fa la sera o nel weekend o in viaggio. Sa da sempre come si convince una redazione a lasciarci scrivere di ciò che amiamo. In qualunque città si trovi, sta sicuramente andando a parlare con un regista di cui ha appena visto un film, e sicuramente non ha chiesto agli uffici stampa il contatto ma l’ha direttamente pedinato. Va a teatro, ne scrive, va al cinema, ne scrive, va al balletto, ne scrive, legge un libro, ne scrive. Vive in un mondo parallelo in cui è già tre mesi avanti e sa cosa faremo fra tre mesi: un vantaggio incredibile se si scrive per i periodici.

Intervista a Breat Eston Ellis
Dice: “Col sesso c’hai a che fare tutti i giorni. È parte di chi sei. Sei costretto a pensarci sempre. Che ci puoi fare?” Poi spiega che i suoi personaggi, più che da ossessioni, sono affetti dalla mania di controllo. “Essere maniaci del controllo significa non permettere che succeda niente. Mentre scrivevo la sceneggiatura di The Canyons mi sono ritrovato a pensare che c’è un momento in cui devi lasciare andare, non puoi cercare di controllare tutto per sempre, non funziona. Di fatto in parte è un film su di me”. (leggi tutto)

Da Dickinson a Dylan, e viceversa
La visita dura un’ora e mezzo e prevede un tour della casa di famiglia di Emily e dell’adiacente Evergreens, residenza del fratello Austin e di sua moglie Susan. La guida è un distinto signore sulla sessantina. Sulla camicia ha una targhetta con scritto il nome Alan e il cognome Dickinson. Uno dopo l’altro noi visitatori a turno gli chiederemo: parente? E lui risponderà: Sì, lontano. Parco in dettagli su di sé tanto quanto generoso in quelli sui propri avi. Alan Dickinson ha almeno una storia per ogni stanza di ognuna delle due case, ogni tanto legge qualche verso, ci parla dei progetti di restauro della casa museo, si dilunga felicemente sulle vicende editoriali della lontana antenata e sulla faida scatenata dalla relazione adulterina tra il fratello Austin e Mabel Loomis Todd, che mai in vita incontrò Emily e delle cui poesie diventò la prima editor (faida che è al centro della bella biografia di Lyndall Gordon Come un fucile carico. La vita di Emily Dickinson, Fazi Editore). (leggi tutto)

García Lorca in New York
Di Poeta a New York oggi Patti Smith dice: “Dentro c’è la bellezza, e l’avarizia, le cose che lo terrorizzavano, quelle che l’ossessionavano, quelle che lo disgustavano. Ed è un vero libro americano. Un piccolo libro scritto da un poeta che nel proprio paese non aveva nessuna libertà e che in America sentì di potersi esprimere, regalandoci una visione unica e speciale di New York e di quegli anni. Dopo New York tornò in Spagna, tornò a Granada, e tornò da persona politicamente scomoda e con una consapevolezza sessuale impopolare in Spagna, come dappertutto in quegli anni. Ma lui andò comunque. Venne arrestato, portato su un campo, e fucilato. Il corpo venne gettato in una fossa comune. È così che hanno trattato uno dei più grandi poeti di ogni tempo”. (leggi tutto)

Lunga vita alle graphic novel!
Nell’83 Toffolo frequentava la scuola Zio Feninger, imparando per esempio da Magnus che “una storia si può fare quando conosci la fine”. Negli anni ha insegnato anche lui fumetto, ha scritto e disegnato un albo che si chiama Lezioni di fumetto, ne ha scritto e disegnato un altro che viene da sospettare sia per molti adolescenti tutto quello che sanno su Pasolini, e che citando Uccellacci e uccellini dice: “I maestri sono fatti per essere mangiati”. http://www.minimaetmoralia.it/wp/intervista-harmony-korine-spring-breakers/ “Lo spring break per esempio mi interessava come fenomeno già da un po’. Ritagliavo foto e le raccoglievo. Foto scattate in Florida, foto di ragazzi e ragazze che in quei pochi giorni di vacanza danno di matto, fanno cose strane, fanno sesso sulla spiaggia, esagerano con droghe e alcool e tutto, vivono il divertimento in modo selvaggio ed esasperato. Di lì m’è venuta l’idea che avrei potuto usare lo spring break come metafora per raccontare qualcos’altro. Sono partito da un’immagine di un gruppo di ragazze in spiaggia in bikini che si diverte e ho iniziato a lavorare d’immaginazione costruendoci sopra una storia”. (leggi tutto)