mercoledì 23 aprile 2014

I consigli di lettura dei nostri docenti #1:
Cristiano de Majo


 
Gli anelli di Saturno di W. G. Sebald (Adelphi) perché è un libro in cui si sprofonda e a cui mi sono abbandonato senza opporre resistenze ed è inoltre il libro che rileggo più spesso in questo periodo. Ma anche perché è la dimostrazione più lampante di quanto la letteratura non si debba per forza di cose fare coincidere con il romanzo.
 
 
 
 
 
 

Verso Betlemme di Joan Didion (Il Saggiatore) perché insegna come scrivere pezzi giornalistici con un punto di vista personalissimo e uno stile suadente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Mistero napoletano di Ermanno Rea (Einaudi) perché, sbagliando, non lo abbiamo mai utilizzato per il corso di non fiction e dall'anno prossimo dobbiamo rifarci: è un libro bellissimo, che ti tira dentro, con il suo perfetto equilibrio tra storie individuali e Storia con la s maiuscola.
 
 
 
 
 
 
 
 
Cristiano de Majo (1975, Napoli) è autore di tre libri tra cui il romanzo Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo migliore amico (Ponte alle Grazie 2010). 
Per minimum fax ha scritto, insieme a Fabio Viola, Italia 2, viaggio nel paese che abbiamo inventato; suoi racconti sono compresi nelle antologie Voi siete qui e Best off 2005.
Ha lavorato come editor e consulente editoriale e attualmente scrive sulle pagine culturali di Repubblica e su Rivista Studio. 
Insieme a Christian Raimo è docente dal 2011 del corso di literary non fiction e con Carola Susani, Giordano Meacci e Francesco Pacifico, del corso avanzato di scrittura Scrivere un libro.

martedì 8 aprile 2014

Il giornalismo culturale: scrivere di sport e di musica

di Francesco Pacifico




Continuiamo a presentarvi gli ospiti del corso di giornalismo culturale: Daniele Manusia e Valerio Mattioli si occuperanno, rispettivamente, della lezione sul giornalismo sportivo e di quella sulla musica.
(Qui trovate il precedente post dedicato a Nicola Lagioia, Francesco Longo e Tiziana Lo Porto.)


Daniele Manusia vive e lavora a Roma. Cura la rubrica di calcio Stili di Gioco per il sito di VICE ed è vicedirettore di Ultimo Uomo. Ha collaborato con Nuovi Argomenti, GQ, Orwell, Studio, IL. È autore di Cantona. Come è diventato leggenda (Add editore).
La rubrica Stili di gioco di Daniele Manusia, nata su minimaetmoralia e proseguita su Vice, è uno degli esempi più importanti del nuovo giornalismo calcistico italiano. Insieme a Tim Small porta avanti Ultimo Uomo, dove scrive pezzi approfonditi sui calciatori e gli allenatori. Odia i tifosi, compresi quelli della Roma. È il futuro del calcio italiano; è odiato e amato.



Lukaku e la tradizione della punta di peso
Due settimane fa contro il Newcastle, una partita monstre di Lukaku (figlio di un ex calciatore che lo scorso anno ha avuto problemi con la legge per aver rinchiuso la propria amante nel portabagagli; Romelu ha un fratello minore, Jordan, centrocampista, in Nazionale Under 21) che ha segnato due gol e realizzato l'assist per quello di Barkley. L'allenatore spagnolo Roberto Martinez ne ha lodato la capacità di collegare i reparti e di posizionarsi “dove fa veramente male”, lo ha definito a tratti unplayable. Jamie Carragher che commentava la partita invece ha detto: “Giocatori come Lukaku sono la ragione per cui ho smesso di giocare.” Sabato ho visto la partita tra Everton e Manchester City insieme a due amici, in un pub irlandese vuoto, all'ora di pranzo. Naturalmente ho parlato della mia passione per Lukaku e del concetto di “dominanza”. Mentre uno dei due mi ha ricordato che, per quanto possa individualmente essere forte un giocatore di questo tipo, quasi nessuna squadra moderna lo schiererebbe, che è sorpassato; l'altro ha sviluppato una teoria sul fatto che, anche se di giocatori di questo tipo ce ne sono ancora (in campo ad esempio c'era Yaya Touré, e io sono un grande fan di Fellaini), ci sono sempre meno attaccanti di peso. La sua teoria è questa: quando è stata introdotta la regola del retropassaggio (1992) i portieri non avevano la tecnica per far ripartire l'azione da vicino come facevano con le mani ed erano costretti a lanciare lungo, sulla torre appunto. Adesso però persino il Sassuolo comincia l'azione palla a terra dalla difesa e l'attaccante per vincere il duello aereo a metà campo non è più necessario. (Il mio sogno è guardare partite solo con gente in grado di formulare simili teorie).


Su Francesco Totti
Il mio rapporto da tifoso con Totti è sempre stato all’insegna dell’ambiguità. Sono nato nel 1981 e mio padre è laziale, non avevo nessuno che mi portasse allo stadio da piccolo e se la Roma era nata grande (o se lo era stata nella prima metà degli anni ottanta come mio zio materno raccontava) io non lo potevo ricordare. La prima Roma di cui ho piena coscienza è quella che ho seguito durante gli ultimi anni del liceo. Quella dello scudetto laziale del 2000 e, solo tre giorni dopo, dell’addio di Giuseppe Giannini con l’aereo passato sopra l’Olimpico con la scritta “Lazio Campione” e il saluto amaro al Principe finito in invasione di campo e le porte e il manto erboso distrutti come per dire che basta, il calcio era finito, in questo stadio, in questa città, non ha più senso giocare.


Stili di gioco: Brera spiegato al popolo
Anche se si parla di Brera solo per i neologismi e i nomignoli che affibbiava a calciatori e allenatori, e per l’uso del dialetto in pezzi di cronaca sportiva, ancora oggi, a quasi vent’anni esatti dalla sua morte, è ai suoi articoli che torno quando mi chiedo come è giusto scrivere di calcio.
Tra sessant’anni qualcuno avrà interesse a farsi la tessera della biblioteca e leggersi, in sala emeroteca, la prima pagina della Gazzetta dello Sport il giorno dopo la finale di Champions League, con quel titolo senza sensoDrogba d’Europa? Mettiamo anche che ci sarà un’applicazione per questo, qualcuno scaricherà il pezzo di Paolo Condò sulla finale? Eppure, se leggo la cronaca di Brera di un derby Inter-Milan del lontano ’49 (mio padre aveva 8 anni) finito 6-5 (ripubblicato nella raccolta Il più bel gioco del mondo, come gli altri pezzi che citerò), non solo riesco a capire cosa è successo, arrivando a farmi un’idea di giocatori che non ho mai visto in azione, ma la trovo una lettura interessante.


Stili di gioco: solo un capitano
Quanto è lontana la Roma degli anni Settanta da quella a cavallo del secolo, e quanto è lontano Di Bartolomei, e il senso di decadenza storica di cui parla, da quei romani che si tatuano colossei e gladiatori (Totti ne ha uno anche sulla fascetta da capitano), dalla retorica imperiale riattualizzata in quel “The King of Rome Is Not Dead” che è diventato lo slogan di Totti? La biografia sul sito francescototti.com è divisa in capitoli come: “L’uomo che diverrà leggenda”; “Indomito condottiero”, “Per la Gloria di Roma” e la sua nascita è descritta con l’enfasi degna di un profeta nelle sacre scritture: “Anno 1976. La città eterna, culla dell’Impero che dominò il mondo, contempla la nascita di una splendente stella, incarnazione di talento, tenacia e umanità: è Francesco Totti, colui che di Roma diverrà figlio prediletto, simbolo ed eroe”. E così è stato. Se Roma ha assegnato a Di Bartolomei il ruolo di fratello maggiore tormentato, Totti è stato all’inizio (e in parte resterà per sempre) Il Pupone, il figlio prediletto cui si perdona tutto e da cui, alla soglia dei trent’anni, ci si aspetta quasi che cominci a far miracoli. Per Totti più che di “ottavo Re di Roma” (o nono, decimo, visto a quanti prima di lui è stata assegnata la corona) si dovrebbe parlare di una specie di Papa laico a cui vengono messi in braccio i bambini per strada. Quando Totti, la cui disponibilità nei confronti del popolo romano è una delle qualità più apprezzate, si è presentato alla cena di Natale della squadra lo scorso dicembre, al museo Maxxi, i bambini a caccia di autografi erano tutti intorno a Lamela (forse perché più vicino a loro di età). A sbarrargli la strada fu un disabile e, subito dopo, una di quelle arzille vecchiette romane che di recente finiscono su Youtube. Totti piegato a parlare con uno sconosciuto sulla sedia a rotelle, Totti che cammina sotto braccio con un’anziana uscita di casa in pantofole.


Mildred cuore di mamma 
Le lunghe inquadrature di Mildred che assiste all’esibizione di Veda sul palco dell’opera lirica sono inquietanti per il modo in cui la madre sembri voler mangiare con gli occhi la propria figlia. Il personaggio di Mildred mostra i limiti della mentalità working class, storicamente rimpiazzata da quella di una società cinica e individualista, E Kate Winslet è bravissima a rendere una donna forte e un po’ ottusa che fino all’ultimo, anche dopo che a causa di Veda ha perso tutto quello che aveva costruito, non trova niente di meglio da dirle che: «Vieni dentro, c’è tanta roba da mangiare».


Un incontro Takeshi Kitano

Siamo in un ufficio all’ottavo piano con vista sul centro di Parigi e Kitano risponde alle domande di un gruppetto di colleghi italiani. Dice che la sua forse non si può neanche definire arte. “Sono mie creazioni, questo sì, ma arte forse non è la parola giusta”. Qualcuno insiste sulla distanza tra le atmosfere malinconiche e i silenzi dei suoi film e la rumorosità gioiosa della sua arte, e lui risponde che è come manovrare due marionette diverse, una per il cinema un’altra per la televisione e la pittura. Sul tavolo davanti a sé ha delle fialette di collirio e un asciugamano viola arrotolato in un piattino. A causa del famoso incidente ha la parte destra del viso paralizzata, batte un solo occhio mentre con l’altro ho l’impressione mi stia fissando. A me, con i capelli giallognoli e un completo scuro senza cravatta, sembra più il personaggio di uno dei suoi film di yakuza che un comico o un artista gioioso. Me ne sto andando sicuro del fatto mio, quando per salutarlo gli allungo la mano e lui si inchina. Allora mi inchino a mia volta ma a quel punto è lui che allunga la mano per stringermela. I presenti ridono, abbiamo fatto uno sketch, e anche Kitano ride, con solo metà della bocca.


Valerio Mattioli è una colonna portante di Vice Italia e di XL di Repubblica. Esperto ricapitolatore della storia della musica italiana e delle sottoculture, è il saputo e sapiente umarel della Casilina che sta a guardare, e nell’oscurità a manipolare, ciò che avviene nella scena underground romana.

Stefano Tamburini, borgataro post-punk
Tamburini in fondo era prima di tutto un borgataro, figlio di ferroviere e abituale frequentatore di quella wasteland spirituale che è la periferia romana, la stessa a cui per abitudine assocereste l’aggettivo “pasoliniano”. Mi viene da pensare a una cosa scritta da Emi Fontana, che del fondatore di Frigidaire fu la moglie: “Le sue fonti di ispirazione preferite erano sul sessanta e il cinquantasei notturni, nelle strade semideserte delle sterminate periferie romane di Centocelle e Prenestino,” e a me—che da adolescente a Centocelle ci vivevo e tuttora non è che mi sia spostato di molto—più che una coincidenza è sempre sembrata una conferma e assieme un motivo di inconfessata identificazione. Stefano Tamburini era senz’altro un artista molto romano, da tanti punti di vista: provava un’adulazione incondizionata per Mario Schifano e la vecchia scuola di piazza del Popolo, e coi vari Tano Festa e Franco Angeli condivideva, oltre che la consuetudine con la siringa, il rapporto osmotico con un’Urbe intrinsecamente marginale, antiromantica, molesta; e poi era l’erede di un percorso che riportava indietro ad Aldo Piromalli, ad Alberto Grifi, a Victor Cavallo, in sostanza a quell’underground capitolino il cui ultimo esito sarà il Nico d’Alessandria di L’imperatore di Roma, storia di tossici uscita un anno dopo la morte di Tamburini stesso e sorta di Accattone coi coatti in motorino al posto dei ragazzi di vita, il chiodo al posto delle canotte, i sintetizzatori al posto di Bach.

Lou Reed (e Metallica): l'intervista ai tempi di Lulu
Al secondo piano del Claridge’s (il classico albergo da aristocrazia londinese) sembra che tutti siano in attesa di un’udienza: i volti sono tirati manco in fondo al corridoio li aspettasse il papa, le espressioni dei convenuti oscillano tra l’apprensivo e il preoccupato, e le conversazioni languono in una formalità che sa di tensione lontano un chilometro. Per la miseria, dico io, è solo un’intervista. Ma l’inviato di Der Spiegel che mi accompagna a prendere un caffè, è categorico: “Ho intervistato Lou Reed una volta, qualche anno fa”, racconta. “È stato orribile. Mi ha insultato e trattato di merda dall’inizio alla fine. Che razza di esperienza…”


Le ragazze del Piper: in ricordo di Giancarlo Bornigia
Prima che Vanzina ci facesse un film, prima di diventare il soggetto di una fiction per Canale 5, e prima che le Poste Italiane gli dedicassero un’apposita cartolina, il Piper fu il tempio dell’Italia yé-yé. Era il 1965: due amici benestanti e ancora affamati di Dolce Vita – Giancarlo Bornigia e Alberico Crocetta – decidono di aprire a Roma un locale ispirato ai club che negli stessi anni andavano affollando la Swingin’ London dei Beatles, di Twiggy e della minigonna. Lo decorarono con un po’ di opere prese dal meglio della pop art italiana e internazionale – da Mario Schifano ad Andy Warhol – e chiamarono a suonarci le prime formazioni beat. Fu un successo immenso. Frequentato tanto da VIP quanto da un tipo di giovani letteralmente inedito per l’Italia del periodo, il Piper fu un fenomeno a cui si dedicarono sociologi, intellettuali, politici e analisti del costume.


Guida a Roma Est
Come sanno amici e parenti, vivo a Roma più o meno da quando sono nato. Per la precisione, ho passato praticamente tutta la mia esistenza tra via Casilina e via Prenestina, nel quadrante orientale della città. Quando ero piccolo stavamo in un quartiere di periferia, Torre Maura, talmente negletto che quando succedeva qualche fatto di cronaca i giornalisti ne sbagliavano continuamente il nome. “Omicidio a Centocelle”, strillava Il Messaggero: peccato che il quartiere di Centocelle distasse più o meno tre chilometri. D’altra parte, quando qualcosa succedeva veramente a Centocelle, per i giornalisti diventava Tor Pignattara (cinque chilometri). Se poi ammazzavano qualcuno a Tor Pignattara, ecco che sul giornale diventava “in zona Prenestina”. La via Prenestina a sua volta diventava via Tiburtina. E così via.

The weird side of Paul McCartney
Affermare che esista anche un McCartney sperimentale (come implicitamente lascia intendere Ian Peel) è forse troppo, e in fondo fu proprio Paul a ribadire con un proverbiale moto d’orgoglio che le sue non solo erano Silly Love Songs, ma soprattutto che what’s wrong with that?. Però sarebbe stato interessante se l’uomo di Yesterday avesse veramente dato seguito al suo proposito, risalente agli anni 60, di pubblicare un intero album d’avanguardia intitolato Paul McCartney Goes Too Far. Certo, fu lo stesso Paul a raccontare come infine andarono le cose: «Ci pensai, considerai il tutto e mi dissi: no, meglio se mi metto a scrivere Hey Jude». Tutto sommato non è andata male.

Franco Battiato: "Contro il mondo. Contro la morte"
A Catania fa caldo anche se è ottobre inoltrato. Non è un caso che a Zafferana Etnea, un paese vicino a dove abita Franco Battiato, ogni domenica del mese si celebri una festa chiamata “Ottobrata” dove ci si incontra, si mangia e si beve fino a tarda sera. Sono circa 45 minuti da Catania se non si trova traffico, un luogo magico dove la vegetazione è rigogliosa, un luogo dove Battiato ama ritirarsi in perfetta solitudine. Siamo a Milo, alle pendici dell’Etna. Sopra di noi, il vulcano sbuffa placido annerendo il cielo coi suoi fumi millenari. La villa è discreta. Anzi, non sembra nemmeno una villa perché non si presenta imponente: dalla strada si vede solo una porta. Non aspettatevi ingressi faraonici e interni sfarzosi: anche qui Battiato ha amato giocare di sottrazione.
Da un piccolo cortile si accede immediatamente a una stanza dove il primo elemento di arredo che appare è un pianoforte. Battiato ci accoglie e ci fa accomodare. È vestito con eleganza semplice: una camicia bianca, una giacca, un paio di pantaloni blu a cui fanno da contrasto le scarpe “Masai” a cui è rimasto fedele dal nostro incontro di tre anni fa (allora erano di moda, adesso non più ma lui le usa esclusivamente per le loro doti salutari).