venerdì 13 dicembre 2013

Il Magnifico

Immagine: Sopra le quinte | Marco Giacchero

In occasione della partenza del nuovo ciclo di seminari tematici di scrittura, pubblichiamo un racconto di Alessandro Marzocchi, allievo della scorsa edizione.


Soffriva il tempo vuoto. Lo scarico del lavandino aveva lasciato un lamento gutturale inghiottendo l’ultimo ristagno d’acqua. Moco era rimasto a cercarsi nello specchio sbattendo gli occhi, con le mani e la faccia ancora umide. Il silenzio gli premeva sulle orecchie nella luce fioca del piccolo bagno. Non c’era carta né altro. Aveva tirato a sé la tenda che faceva da porta ma al tocco era così sporca e impolverata che l’aveva abbandonata subito e si era risolto a fare con la maglia. Aveva sbadigliato per la tensione, si era schiarito la gola e aveva sputato nella tazza. Quando aveva spento la luce si era trovato in un buio nero, aveva fatto due passi ed era finito contro il telo del fondale.
Alla quinta ci era arrivato camminando alla cieca, senza aspettare che gli occhi si abituassero ma annaspando con la destra e la sinistra nel vuoto. Non si era mai trovato in un retropalco stretto a quel modo, per di più con il cesso nel mezzo.
Il palco era in penombra. Le file di poltroncine rosse della platea assorbivano come una spugna le luci della sala. Moco aveva misurato la diagonale fino alla panca che occupava il centro della scena. Erano cinque passi esatti, era lì che avrebbe dovuto fare l’inchino e cominciare.
“Il teatro è geometria” gli aveva spiegato Pierattini il giorno prima, alle prove. Moco si era infilato un dito nel naso. I luoghi chiusi e pieni di polvere gli riempivano il naso di caccole.
Il tecnico delle luci, Giannelli, aveva scostato le tende dell’ingresso e si era fermato con le mani in tasca in fondo al corridoio della platea, Moco si era voltato per nascondere il gesto e si era pulito le dita sui pantaloni. Giannelli si era tolto la giacca e il cappello appoggiandoli ad uno schienale dell’ultima fila e si era seduto nella sua postazione, a testa bassa. Da quando Moco era salito di grado gli pareva di venir trattato in maniera diversa, distante, allora aveva tossito forte, due volte, ma Giannelli era rimasto chino sul mixer.
Moco aveva preso un respiro e aveva chiesto “Dove sono tutti?”. La prima americana, sul proscenio, si era accesa. Moco aveva guardato il tavolato del palco, le proprie scarpe, tingersi sotto le luci colorate. Giannelli aveva abbassato il cursore e l’aveva spenta, “Sono al bar” aveva detto e aveva acceso l’occhio di bue a sinistra, puntato di mezzo metro davanti a Moco. “Dov’è il bar?” aveva chiesto Moco. Giannelli aveva sfumato il faro fino a farlo scomparire poi era andato in successione con l’altro occhio di bue, a destra, centrando col getto di luce la panca e il ragazzo, poi aveva spento anche quello “Al paese, due chilometri più su” aveva detto. Tornato in penombra Moco si era accorto di avere freddo. “Il teatro è il gelo” aveva sentito dire quel pomeriggio da Pierattini, ispirato, in piedi sul palco a guardare la sala vuota del cinema teatro intanto che lui montava gli oggetti di scena.
Moco era uscito dalla porta di sicurezza posteriore. L’aria era fredda, la luce al neon gettava una chiazza giallastra sulla breccia dello spiazzo, il cassone del vecchio furgone spuntava a pochi metri dietro i pini. Si era stretto nella giacca, aveva dato un’occhiata all’orario, le otto meno dieci, ed era andato a pisciare poco più in là sul limitare della scarpata.  Le luci della pianura erano poche e sparse nel nero della terra.
Il furgone si era avviato al terzo tentativo. Il motore lo spingeva lento sulle curve della salita. Moco guidava guardando la strada nella luce dei fari.

Una settimana prima si era svegliato ed era ancora solo l’attrezzista, o come diceva il Pierattini “Il direttore di scena” dello spettacolo. Era la mattina dopo la recita di Vicchio e tutta la compagnia era ospite al cascinale. Moco era sceso a far colazione al tavolo sotto il pergolato che gli altri stavano finendo, l’aria era umida ma piacevole. Giannelli si rimpinzava di biscotti, gli aveva mugugnato un saluto mentre Flora più discosta, il capo reclinato, non l’aveva neppure guardato, i capelli biondi le cadevano lisci sul lato del viso come una tenda e fumava con gesti molli davanti alla tazzina. Pierattini, il padrone di casa, era in piedi distante quattro o cinque metri, dava le spalle a tutti e guardava un punto indefinito del panorama. Solo Attilio mancava. C’era foschia, la piana e anche la corona di colline intorno erano senza colore. Quando il cane gli era arrivato vicino ad annusargli i pantaloni, Pierattini era rimasto diritto, le mani nelle tasche, finché quello non se ne era andato a coda bassa. Aveva masticato la saliva nella bocca chiusa e poi aveva detto “Giacomo, Giacomo, vieni” Moco aveva buttato giù l’avanzo di caffè tiepido e si era avvicinato. Guardava la schiena larga di quell’uomo piantato sugli zoccoli davanti ad un panorama infiacchito dalla pesantezza dell’aria. Il fisico corpulento da contadino nei pantaloni neri, macchiati, la camicia a quadrettoni aperta con i lembi che penzolavano sui lati. “Hai capito cos’è il teatro, vero?” gli aveva detto Pierattini, Moco aveva preso una sigaretta “Il teatro è un equilibrio sottile, è misura” aveva continuato e si era voltato a guardarlo, lui stava con le mani davanti al naso ad insistere su di un accendino difettoso. “Lo spettacolo fino ad ora ha galleggiato come un sughero” guardava la faccia di Moco arricciarsi nel tentativo di riuscire ad accendersi la sigaretta. Soppesava i tratti di quel ragazzo basso e magro, il suo viso squadrato con il naso lievemente storto, i capelli neri, folti e le sopracciglia unite che facevano una linea sopra la grossa montatura degli occhiali. Pierattini aveva preso un respiro ed era tornato a guardare la foschia “Ora bisogna vedere se può avere il guizzo di prendere il volo, oppure affondare” Moco scuoteva l’accendino nella destra.
“Vedi, quello che è successo ieri, dopo la recita può essere la fine come il punto di svolta”
La fiamma era arrivata tenue, galleggiava con la sua punta gialla, tremolante, attaccata alla coroncina di metallo dell’accendino. Moco l’aveva custodita richiudendoci la sinistra attorno e aveva pescato con la cima della sigaretta. “Attilio Martini ci ha abbandonato, così, nel mezzo della nostra avventura, ma è inutile discutere di questo, bisogna guardare avanti, fra una settimana abbiamo la recita al teatro di Popiglio, su all’Abetone, bisogna pensare che non tutto ciò che sembra un male è poi un male. Come si dice: si chiude una porta e si apre un portone”
Pierattini continuando a ragionare si era di nuovo rivolto verso Moco e fissava a terra una lumaca procedere strisciando tra i fili d’erba. Moco lo aveva guardato senza capire. Fumava la sua sigaretta un po’imbarazzato pensando che appena lo avesse mollato con il discorso si sarebbe fatto volentieri una canna e poi sarebbe andato in bagno che dopo gli scappava sempre la cacca, regolare come un orologio. Pierattini si era sfilato il piede destro dallo zoccolo. Anche il piede era tozzo, con le dita corte e grosse “E il portone si può aprire per te, Giacomo” aveva allungato la gamba e portato il suo piede nudo sopra la lumaca “Tu hai una faccia da teatro, sai? Segui lo spettacolo da più di un mese, quante volte l’hai visto, tra prove e recite, trenta, quaranta, no?” mentre parlava era andato a schiacciare il mollusco con il suo guscio pigiandolo a terra tra l’alluce e la pianta del piede. Moco aveva sentito il rumore della casetta dell’animale disgregarsi sotto la pressione e aveva visto venire su una schiuma grigia negli interstizi tra le dita. D’istinto era salito a fissare il volto di Pierattini, l’espressione soddisfatta, mentre strofinava il piede sull’erba prima di rinfilare lo zoccolo, e aveva risposto “Anche cinquanta.”
Pierattini gli aveva sorriso, con la destra si era accarezzato il mento e gli occhi si erano fatti acuti “E la parte di Attilio, si può dire che la sai?” Moco, col pensiero alla canna e alla cacca, per tagliare corto gli aveva detto “A voglia, so anche la sua oramai” e si era allontanato. Con quella risposta era diventato attore.

Il furgone aveva arrancato sull’ultimo tratto di salita, uno strappo ripido di duecento metri dopo il cartello “Popiglio” e Moco aveva raggiunto un gruppo di case. Due anziani erano seduti di fianco all’ingresso del bar. Moco aveva posteggiato al bordo della carreggiata ed era entrato cercando di sciogliere il passo al meglio mentre i vecchi lo osservavano in silenzio. Aveva inquadrato subito Pierattini e Flora al tavolino con un bicchiere in mano.
“Ecco il nostro Giacomo” aveva detto forte Pierattini vedendolo entrare e si era buttato in bocca un pezzo di focaccia per andare ad accoglierlo battendogli le mani sulle spalle “Bravo, bravo, mi raccomando eh..” aveva aggiunto con la bocca piena poi era tornato al tavolo a riprendere il bicchiere di vino, l’aveva vuotato e si era pulito la bocca con il dorso della mano “Concentrato, Giacomo, il teatro è concentrazione”. Nel fondo della sala un tizio che leggeva il giornale aveva fatto un rutto. Moco era andato al banco, la signora, dietro, bassa e tutta rughe, lo aveva fissato senza espressione. Pierattini si era avvicinato battendogli di nuovo la mano sulla spalla “Mi raccomando, niente alcolici, devi essere al meglio”. Moco lo vedeva riflesso nella specchiera della parete tra le bottiglie. Il faccione largo, l’occhio guizzante, sorridergli, e così sulla spinta aveva chiesto una spuma bionda e se c’era qualcosa da mangiare. “Si sono finiti tutto gli amici tuoi” aveva risposto la barista mentre si chinava a prendere la bottiglietta di gassosa.
Moco si era voltato, Pierattini faceva segno a Flora di sbrigarsi, lei con il vestitino a fiori leggermente sbottonato si alzava dal tavolino e Moco le aveva guardato le tette. Anche Pierattini aveva gli occhi sulle tette di Flora, aveva detto “Noi si va, non fare tardi eh..” ed erano usciti. Flora passandogli accanto gli aveva lasciato un sorriso furtivo tanto che Moco subito dopo aveva guardato la propria di immagine tra le bottiglie, e si era detto che non era poi così brutto, anche sua madre lo diceva “Un uomo non è mai brutto, è particolare” diceva, se non fosse stato per quella caduta dal letto quando era piccino anche il naso lo avrebbe avuto dritto. Così Moco aveva scostato il bicchiere di spuma “Mi dia una grappa” aveva detto, poi l’aveva buttata giù di un fiato e si era scosso in un brivido. Aveva guardato in giro, ancora, il tizio che leggeva il giornale, e ancora la sua immagine nello specchio tra le bottiglie. Si sentiva già meglio, più sicuro. Si era sorriso. La signora dietro il banco lo stava osservando con la stessa faccia tutta rughe. Moco si era ricomposto serio e aveva rilanciato “Un’altra” spingendo il bicchiere in avanti sul banco. Anche la seconda grappa era andata giù in un fiato, ma gli era ritornata su, in parte, provocandogli un piccolo accesso di tosse. La signora lo guardava fisso, con i suoi occhi piccoli e scuri. Moco si era aggiustato le maniche della giacca e aveva domandato quanto era da pagare “Con quello che hanno preso gli amici tuoi sono diciannove” gli aveva risposto lei mettendo una mano al fianco e cambiando piede d’appoggio. Moco si era disunito un attimo, il tempo di capire, con il labbro inferiore che si abbassava leggermente, poi aveva messo la banconota da venti vicino al bicchiere. Era uscito dicendo “Tenga pure il resto”.
Il teatro visto da lontano sembrava un magazzino, una grossa scatola di cemento dimenticata sulla costa della strada, Moco aveva parcheggiato sul retro vicino alla Lancia K nera di Pierattini. Erano ancora le otto e mezza, allora si era rollato una canna, l’aveva chiusa e infilata nel pacchetto di sigarette. La porta di emergenza era bloccata dall’interno e si era fatto tutto il giro fino all’ingresso principale, con calma, strisciando la chiave del furgone sul cemento del lato lungo.
I camerini erano un’unica stanza, lunga e stretta con in fondo uno specchio e un acquaio senza rubinetto, Flora era già con l’abito di scena che si aggiustava i capelli,  Pierattini si stava cambiando. “Ah eccolo” aveva detto “muoviti, che si fa tardi, in scena è tutto a posto?” “Certo” aveva risposto Moco posando la giacca ad un attaccapanni e aveva preso la gruccia con il suo costume. Pierattini aveva indosso il camiciotto bianco e azzurro con le maniche a sbuffo e cercava di allacciarselo tirando in dentro la pancia “Flora” aveva chiamato, e lei era arrivata subito ad aiutarlo, Moco le guardava le tette spinte in alto dal corsetto.
“Questo è il teatro, è collaborazione” diceva Pierattini intanto che gli sistemava la camicia.  Moco aveva aspettato che Flora se ne andasse per togliersi i pantaloni, poi si era infilato una calzamaglia rossa. Pierattini in piedi, si aggiustava davanti allo specchio “L’uomo ha bisogno di poche cose: mangiare, trombare e dormire” aveva guardato il riflesso di Moco sorridere alla sua massima e aveva aggiunto “In quanto a mangiare e dormire tu sei a posto” aveva riso compiacendosi e accarezzandosi la pancia prominente e aveva continuato “Poi però ha bisogno di altre due cose, di ridere e di piangere. Il teatro è ridere e piangere” si era schiarito la gola, aveva tossito più volte e aveva sputato nel lavandino “Maledizione con questo tempo è un attimo giocarsi la voce”.
Moco si infilava il camicione bianco con i pizzi “Noi con questo spettacolo prima li facciamo ridere, eh Giacomo..” e gli era andato vicino “Poi quando il cuore è molle si va con il sentimento, la poesia.. quelli fanno sempre piangere” aveva fatto un gesto ampio con la mano davanti al volto, puntando lo sguardo a perdersi verso la macchia di umido nell’angolo più lontano “Vedrai le vecchiette in prima fila come tireranno fuori i fazzoletti quando noi si chiude con Quant’è bella giovinezza” e aveva respirato profondo scuotendo la testa, come chi la sa lunga “Si, il teatro è riso e pianto”. Giannelli con la sua faccia chiusa era arrivato a dare i cinque minuti. Moco aveva preso la parrucca, si sentiva la bocca impastata. 
Il tempo di guardarsi allo specchio e sistemare la parrucca che Giannelli era tornato a dare il Chi è di scena.
Sul palco si era comportato benissimo, e quando aveva terminato il pezzo su Carlo VIII, il re di Francia alto un metro e quarantacinque morto per aver battuto la testa contro lo stipite di una porta, la risata era risuonata in tutta la sala, “Ma come le fan piccine le porticine in Francia per farci battere la testa a’nani, secondo me ha detto: -Vò a fare un giro-, ed è partito di corsa, solo si è sbagliato, invece di prendere la porta si è infilato diritto dentro al caminetto e bum, l’è morto da grullo”. Era uscito tra gli applausi. Flora, lì in quinta, gli aveva sorriso e l’aveva abbracciato. Lui l’aveva stretta, forte, per sentire le tette morbide e gonfie spingere sul suo torace. Era andato nella stanza a prendere il pacchetto di sigarette dalla giacca e si era messo a fumare la canna all’uscita di sicurezza sul retro. Le voci di Pierattini e Flora in scena giungevano dalla porta socchiusa.
La notte gli sembrava fresca, sentiva l’aria frizzante sulla pelle, guardava dall’alto le luci delle strade, delle case, punteggiare il nero della terra. Dopo sarebbero andati a cena, e avrebbero parlato di teatro, delle prossime recite, Empoli e Piombino. Gli occhi li sentiva già gonfi, la testa confusa e un sorriso ebete gli si allargava in volto. Aveva avuto un brivido. Ci fosse stata sua madre a vederlo.
Era rientrato chiudendo il battente con delicatezza e aveva fatto qualche passo verso la quinta a controllare a che punto erano. Pierattini si sbracciava, andando da una parte all’altra del palcoscenico, da dietro Moco poteva vedere gli spruzzi di saliva che uscivano assieme alle parole mentre narrava la Congiura dei Pazzi. Sembrava un leone. Flora nell’attesa di rientrare, attendeva accanto a lui, era già cambiata per la scena finale, col vestito da suora. Moco l’aveva guardata negli occhi, lei aveva risposto con un sorriso dolce e la mano ad accarezzargli i capelli. Il momento poteva essere perfetto non fosse stato per alcune fitte alla pancia. La canna fumata fuori, nell’aria fredda, con indosso solo il camicione. Finita la congiura Pierattini si era seduto sulla panca al centro della scena, erano le battute prima del finale, Giannelli aveva messo la musica, Flora era entrata. Moco le avrebbe voluto dire qualcosa, una parola, ma il dolore alla pancia era diventato più intenso. Aveva dovuto raggiungere lo sgabuzzino del bagno in fretta, camminando piegato. E mentre sul palco andavano spediti a concludere Moco era chiuso a libro sulla tazza con le lacrime agli occhi per lo sforzo, a svuotarsi come un sacco. La voce di Pierattini, nuda e sola, intonava già “Questa soma, che vien drieto sopra l'asino, è Sileno: così vecchio è ebbro e lieto, già..” e non c’era tempo che poi sarebbero dovuti tornare tutti insieme per salutare all’antica italiana, tenendosi per mano e inchinandosi al limite del palco. Moco aveva strappato il telo che era al posto della porta e si era pulito con quello “Non fatica non dolore! Ciò c’ha esser convien sia..”  si era rimesso la calzamaglia in ordine, il camicione a posto “..di doman..” la voce di Pierattini cadenzava le ultime parole “non c’è certezza” scandite, forte, e si spegneva sulle pareti del cinema teatro di Popiglio nello stesso momento in cui Moco tirava la catena e usciva dal cesso. In quell’istante, tra la chiusa dell’attore e l’applauso del pubblico, rimbombava forte fino in sala lo scroscio dello sciacquone, dilatandosi nell’interminabile frazione di silenzio.