lunedì 28 febbraio 2011

Dare forma al tempo

di Carola Susani

Narrare è sempre arte del tempo.
Il tempo lo conosciamo solo così, attraverso i cambiamenti.
Il racconto breve è arte di cambiamenti essenziali, trasformazioni subite, cambiamenti voluti, rischiati, frustrati, a volte compiuti.
Anche soltanto vagheggiati. La forma del racconto breve risponde al cambiamento che si racconta. È traccia del percorso che si fa da una condizione ad un’altra. Può essere breve come un tuffo a chiodo, complicato come una corsa a ostacoli, faticoso come una traversata del deserto. La forma sarà la forma del tuffo, della corsa, degli ostacoli, dei rallentamenti, degli slanci e giocherà con il tema del racconto per consonanza, fuga, contrappunto. Del tempo, del cambiamento, di come gli scrittori gli danno forma, della forma che vorremo dargli, converseremo durante il seminario con Nicola Lagioia e tra di noi.
Ci metteremo alla prova come tessitori di tempo.  

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«Dare forma al tempo: la struttura del racconto breve» è il primo appuntamento di un ciclo di seminari coordinati da Carola Susani, dedicati, ciascuno, a un aspetto centrale della scrittura del racconto.
Oltre a Nicola Lagioia, interverranno anche Domenico Starnone e Walter Siti.

L'errore

di Giuseppe D'Onofrio

I raggi del sole di maggio entravano radenti dai finestroni del decimo piano e infastidivano una buona metà dei pazienti in attesa. Quelli più magri ed esperti, con le buste e le carte più pesanti, s’erano accomodati da ore sulla fila opposta di poltroncine di plastica, spalle alla parete. Un’infermiera s’affacciava ogni tanto dall’anticamera: un viso stanco con una criniera di capelli rosso fuoco. Subito qualcuno – un uomo in giacca e cravatta, un’anziana infagottata seguita da un vecchio magro, una giovane madre con occhi infossati e la bimba in braccio - si alzava, anticipando la chiamata, e si avviava lento o affrettato, impacciato o agile, ma sempre con una certa esitazione verso l’ambulatorio.
Una figura alta e asciutta, appena ingobbita in un camice bianco che arrivava alle caviglie, emerse dall’ombra giù in fondo e percorse tutto il corridoio a passi ampi e distratti, ciondolando due lunghissime braccia. Oltrepassò la doppia schiera dei pazienti e si fece avanti nell’anticamera. L’infermiera lo riconobbe e si ravvivò:
«Professor Gioia, è tanto che non ti fai vedere!»


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Giuseppe D'Onofrio ha partecipato alla seconda edizione del laboratorio di lettura e scrittura con Carola Susani e Giordano Meacci,
Il racconto "L'errore" è stato pubblicato su Stilos.

Come i Sex Pistols senza Vivienne Westwood

Considerazioni a margine di un workshop di editing

di Gianluca Didino




Domenica 24 ottobre 2010 ho avuto il privilegio di assistere alla parte conclusiva del workshop di editing tenuto da Nicola Lagioia nella sede di minimum fax a Roma. Tralascio qui di approfondire le mie impressioni personali e dico soltanto che per me è stato davvero bello, utile, interessante e formativo, tanto la prima parte in cui ero chiamato in veste di “autore” (virgolette d’obbligo, eh) quanto la seconda a cui ho assistito da spettatore. Nel pomeriggio si è parlato di riscritture e editing lavorando su due racconti di Valeria Parrella e su uno di Raymond Carver nelle due versioni di “What we talk about when we talk about love” (editato) e “Beginners” (non editato). A margine di quanto detto durante il workshop mi sento di fare alcune osservazioni sull’annosa questione Gordon Lish sì / Gordon Lish no, chiedendo scusa in anticipo a tutti coloro che quando sentono parlare per l’ennesima volta dell’editing dei racconti di Carver sono presi da incontrollabili tic nervosi all’occhio destro.

Primo. Per quanto sia un argomento perfetto per un corso di editing, mi pare evidente che la questione Carver vs. Lish non ha niente a che spartire con la critica letteraria, e mi pare altrettanto evidente che proprio su questo punto nel dibattito ad essa relativo regni sovrana la confusione: il momento della produzione culturale e quello della ricezione della cultura sono cose differenti, in continua e costante interazione ma non assimilabili, e questo da qualunque punto di vista si guardi al problema. Quello che voglio dire è che chiedersi cosa sarebbe stato Carver senza Lish è come chiedersi cosa sarebbero stati i Sex Pistols senza Vivienne Westwood: è una domanda utile? Certamente sì se ciò che ci interessa sono i meccanismi produttivi dell’industria culturale, probabilmente no se ci stiamo occupando di Carver, del peso di Carver nella narrativa contemporanea, dell’eredità di Carver eccetera. Che differenza potrebbe fare, infatti, da questa seconda prospettiva, sapere che il Carver che ci è arrivato, quello che leggiamo, amiamo e a volte anche imitiamo è diverso dal Carver che tutto solo, a metà degli anni Settanta in una casa precaria nel profondo degli Stati Uniti, scarabocchiava i suoi racconti su un bloc notes da pochi cent? Personalmente mi pare che questa domanda possa interessare solo due categorie di persone: coloro che amano giocare al gioco dei mondi possibili, come gli scrittori di sci-fi o gli sperimentatori dell’OULIPO; e a coloro che, per via di qualche nodo psicologico irrisolto, sono ossessionati come i nazisti dall’idea della ricerca della purezza (letteraria, autoriale, umana), a quei moderni luddisti, cioè, che hanno smesso di amare il mondo dai tempi della seconda rivoluzione industriale e di Walter Benjamin. Insomma: da un punto di vista critico parcellizzare l’opera carveriana dividendo “il vero Carver” dal “Carver umiliato e offeso” dalla mano pesante del suo cattivo (ma geniale; ma indubbiamente cattivo e insensibile) editor mi pare rischioso, e, peggio ancora, inutile. Con il risultato che la critica ha perso così tanto tempo a cercare di capire chi fosse “il vero Carver” che gli studi sull’opera di Carver, quella reale e concretamente fruibile, sono oggi, almeno nel nostro Paese, a uno stadio ancora molto arretrato.

Secondo. Tutta questa querelle che appare interminabile, più eterna e fosca dei plastici di Bruno Vespa sul delitto di Cogne, ha portato appunto al risultato che ci si è concentrati pochissimo sull’opera carveriana in sé e sulla sua evoluzione storica. Dirlo oggi può apparire come una bestemmia, ma credo che a fare la differenza tra il Carver di “What we talk about” (1981) e quello di “Cathedral” (1983) non sia stato tanto il progressivo venir meno della furia potatrice di Gordon Lish quanto piuttosto una naturale evoluzione della poetica carveriana. C’è gente che a sentir parlare di “poetica” nel 2011, negli anni del trionfo della tecnica, rabbrividisce; ma con buona pace di tutti i tecnocrati uno scrittore è prima di tutto un uomo, e ogni uomo nel corso della vita cambia idee, posizioni sul mondo, sensibilità. Lo stesso Carver disse una volta che al centro del suo lavoro stava la volontà di rappresentare “the dark side of Reagan’s America”, e questo è vero tanto nella raccolta del 1981 quanto in quella del 1983. Se il problema è lo stesso, semmai, ciò che cambia è la soluzione a questo problema: in “Cathedral”, e sto semplificando al massimo, compare una risposta spirituale, empatica, che in “What we talk about” era del tutto assente e che sarà invece ulteriormente sviluppata nell’incompiuto “Elephant” (1988). Presa per buona questa sommaria storicizzazione della poetica carveriana, però, ci si rende conto di un’altra cosa. Se è vero che il Carver del 1981 è portatore di una visione degli uomini e della società sostanzialmente cupa e priva di speranze, la comparazione tra manoscritti e testi editati rende palese come il lavoro di Lish sia andato proprio nella direzione di una estremizzazione di questa cupa freddezza. Risultato dell’equazione: era lo stesso Carver del 1981 a possedere in nuce una cosa che Lish ha, semmai, saputo portare alle estreme conseguenze; Gordon Lish, almeno da questo primo punto di vista, ha semplicemente fatto bene il suo lavoro, niente di più.


Terzo. Visto che però le cose non sono mai semplici come sembrano a un primo (e anche a un secondo e terzo) sguardo, anche volendo concentrare l’attenzione sul tema dell’editing in sé mi pare sia necessario fare alcune distinzioni tra aspetti differenti del lavoro editoriale e racconti differenti della stessa raccolta. Al workshop, per esempio, ci si chiedeva se è meglio riuscita la versione originale o la versione editata di “Why don’t you dance?”. In questo caso personalmente tenderei a dire che è più riuscita la versione editata, e questo sostanzialmente perché è più buia e violenta, avendo prima constatato che il buio e la violenza sono temi portanti in “What we talk about”: la luce della “stella” che si legge nella versione editata è infatti molto più fredda e distante di quella della “stella della sera” presente nel manoscritto. Se però ci si sposta su altri racconti le cose cambiano. Per esempio in “So much water so close to home” il lavoro di editing taglia completamente il lungo monologo di Claire sul suo passato sentimentale, senza il quale, mi sembra, il racconto diventa pressoché incomprensibile. Quindi è meglio il Carver-con-Lish o il Carver-senza-Lish? La risposta è: dipende. Anche perché su questo tema mi viene spontaneo chiedermi (e qui siamo al “dark side of Gordon Lish’s work”) qual è il criterio che l’editor ha utilizzato per tagliare alcuni brani invece che altri. Si è trattato di un criterio strettamente estetico? Nel caso di “Why don’t you dance?” sembrerebbe di sì. Oppure si è trattato di un criterio più legato a logiche editoriali e di mercato? Cioè: il monologo di Claire viene tagliato perché non funziona (a me pare funzioni benissimo) o perché ciò che Lish intendeva proporre attraverso il suo autore un tipo di letteratura nuova, superficiale proprio nel senso di superficie, fredda, anti-psicologica, nettamente distante dalla letteratura dei grandi viaggi intrapsichici che aveva caratterizzato la stagione sperimentale della narrativa statunitense negli anni Sessanta e Settanta (e qui ricordo solo en passant che questi sono anche gli anni dell’“Io minimo” di Christopher Lasch, il che mi fa pensare che questa supposizione non sia del tutto infondata)? Anche questo è un aspetto che mi pare interessante e di cui non ho mai sentito parlare con profondità e competenza.

In chiusura dell’articolo lascio, per consultazione, due link: il primo a uno dei due racconti che ho portato in veste di “autore” (virgolette virgolette virgolette) al workshop del 24 ottobre 2010; il secondo allo stesso racconto riscritto cercando di seguire quanto più fedelmente possibile i suggerimenti e le suggestioni che mi sono venute durante il lungo dibattito da Nicola Lagioia e dai corsisti: perché continuo a credere, a conti fatti, che sia più efficace mostrare che raccontare e nella speranza che questa piccola testimonianza concreta possa essere utile a chi intende affacciarsi sui temi complessi della scrittura e dell’editing letterario.

Link 1: Big Babol, prima versione

Link 2: Big Babol in versione editata



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Gianluca Didino ha partecipato come "scrittore cavia" al workshop di editing con Nicola Lagioia dopo aver vinto la prima edizione del concorso "Le parole giuste" del laboratorio di scrittura di minimum fax, con il racconto Elefante.
Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste letterarie, fra cui Eleanore Rigby e Famlibri.
Boring machines disturb sleep è il suo blog.

La cattività del pesce

di Severino Antonelli


Nella macchina non sentiva il rumore dei tuoni e prima o poi sarebbe arrivato, ma quello non era un problema. Aprì il finestrino per buttare la sigaretta e nello stesso momento la radio fece partire una canzone di un decennio prima, che riverberò per gli sterpi dei campi, sui muri a schiera delle villette e, forse, fino al mare, che stava giù, in fondo alla strada dritta davanti a lui. Quando richiuse il finestrino, un lampo schiarì la strada e i pini attorno. Ne accese un'altra; un parcheggio di sabbia grigia che si apriva sulla sinistra: dei cassonetti gialli fusi, carcasse di lavatrici, una griglia arrugginita, delle scarpe e un ombrellone sfrondato dal vento.
Decise di restare a finire la sigaretta in macchina. Partì un’altra canzone e alzò il volume: intorno a lui non c’erano luci.
Fuori alla finestra della veranda le nuvole avanzavano dal fronte della spiaggia. Il mare laggiù sembrava stazionare immobile sotto il pulviscolo della pioggia, la temperatura dell’aria in cucina stordiva, l’odore del sapone per piatti si mischiava con quello della gallinella al vino e delle Gauloises. In salotto, Nicola stava cercando di far partire un cd, mentre Michele e Anna bevevano mirto in tazzine da sakè, seduti su due vecchie sdraio di canna sulle quali, fino a qualche anno prima, i genitori di Amanda avevano passato pomeriggi a guardare fuori e a guardarsi le carte in mano, quando i temporali di settembre impedivano di stendersi sul bagnasciuga ferroso di Ansedonia. Chiamò Nicola in cucina, giusto nel momento in cui lui era riuscito a far partire il disco. Tra le quattro pareti di foratini risuonò I Feel Like I'Am Fixin to Die Rag di Country Joe and The Fish.
- Manda, non ho voglia di parlare con loro in salotto.
Amanda si rimise a sciacquare i piatti.
- Devono stare soli. Siamo qui apposta.
Nicola non rispose, e si mise a guardare la nuvolaglia fuori.

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Severino Antonelli ha partecipato alla terza edizione del Laboratorio di lettura e scrittura

Perché una scuola di editoria e perché questo blog

La qualità dell'aria - Storie di questo tempo, il libro


L'idea da cui sono nati i nostri corsi, ormai più di dieci anni fa, era quella di condividere l'esperienza e la difficoltà, perché no, del fare l'editore, del prendere un progetto, un'immagine, un sogno di quella che si vorrebbe fosse la propria casa editrice e trasformarlo in un lavoro.

Ai corsi di editoria si sono aggiunti, negli anni, i corsi di scrittura e quelli di cinema documentario e scrittura per il cinema e la televisione. Anche questi nascono dalle stesse premesse: essere un punto d’incontro tra il mondo della scrittura, dell’editoria, del cinema e della televisione, della comunicazione in generale, e tutti coloro che a questi mondi e ai relativi «mestieri» intendono affacciarsi; essere un punto in cui le esperienze di chi dell'editoria e della scrittura ha fatto la propria professione vengono trasferite, discusse ed elaborate.

E l'idea da cui è nato questo blog è quella di trovare un luogo dove incrociare queste esperienze, che non si concludono nello spazio delle lezioni ma che una volta rimesse in circolo sfociano in nuove case editrici, in nuovi professionisti, in nuovi scrittori e, anche nel caso in cui i partecipanti poi prendano strade che non hanno nulla a che fare con l'editoria, la scrittura o il cinema, speriamo che rimangano comunque in loro come una consapevolezza diversa dei meccanismi che sono dietro alla creazione di un libro, di un film o di una singola pagina scritta.

lunedì 7 febbraio 2011

Che cosa insegniamo quando insegniamo scrittura creativa?

di Carola Susani


Buona parte del lavoro di chi scrive, è bene saperlo, avviene a un livello alterato di coscienza. 

È vero, normalmente chi scrive ha letto molto, ha cominciato dall'infanzia e da allora non ha mai smesso. Da un certo momento in poi della sua vita, per via forse di un dubbio o della percezione di un mistero, ha dedicato al mondo uno sguardo rapace. Ha accumulato, come chiunque, una quantità di informazioni, immagini, segni. Molti di questi, nel caso suo, hanno a che fare con il linguaggio. A un certo punto ha cominciato a usare l'alfabeto come se fosse la sua chiave. Il miracolo della scrittura, dice Eudora Welty, è che il mondo nella sua concretezza possa essere raccontato dal linguaggio, e per giunta dal linguaggio scritto, che ne è una parte, ma così minima e asciutta. Che il piccolo e duro possa articolarsi al punto da tenere dentro il grande è buffo, ma è questo che dà alla scrittura la sua tensione: la scrittura è una casa di spifferi. Il mondo è sempre altrove rispetto al linguaggio ed è proprio per questo che il linguaggio lo tiene, come una calamita, perché è allusivo ed elusivo. Ma chi scrive, quando scrive, non mette a frutto con consapevolezza le informazioni che ha archiviato nella sua breve o lunga esperienza. Per scrivere non ha bisogno della pienezza della sua coscienza, anzi spesso la coscienza tutta intera gli è di intralcio. Deve lasciare che si compia un invasamento. (Non è un caso che ci siano autori che scrivono da dio soltanto se sono morti di sonno o mezzi ubriachi.) È come se chi scrive sollevasse un diaframma e si mettesse in attesa, lasciasse venir fuori quello che gli serve senza sapere da dove arriva. Potremmo dire dal subconscio o dal deposito. Chi scrive molto spesso non sa cosa, se un cappello verde con i rospi o il giro di frase di un italiano del '500 o anche di Saffo.
Ma allora? A cosa serve insegnare scrittura creativa? Cosa si insegna? C'è un momento, passato il rapimento, scritta la frase, concluso il capoverso, in cui chi scrive torna in sé, smette i panni del mistico, del mondo e di se stesso, e indossa un lungo mantello a ruota da pedante. Si rilegge, senza l'abbandono e senza il gusto che non deve mai mancare a un lettore, si rilegge con l'occhio torvo del giudice feroce. Neanche in questo caso c'è bisogno che capisca tutto quello che ha fatto, non è un critico né uno storico di se stesso, non gli interessa sapere da dove vengono immagini e calchi linguistici, non gli interessa l'origine, gli interessa l'effetto. Lo scrittore in questa fase del suo lavoro diventa un lucido manipolatore, ora sa che vuole ottenere dal lettore una reazione e va e vede se davvero ci riesce, gioca a essere lettore e controllore di se stesso.

 Il laboratorio può essere soltanto uno spazio di coscienza. Un laboratorio di scrittura è sempre un laboratorio di lettura. 

In un laboratorio di scrittura possiamo leggere insieme Flannery O'Connor, Virginia Woolf o Federigo Tozzi, studiare come hanno ottenuto volta per volta il loro effetto. Più leggeremo, più smonteremo, più depositeremo nel nostro magazzino nuovi strumenti. Un laboratorio di scrittura, per come io lo vedo, è uno spazio comunitario. Non è una classe dove qualcuno insegna e qualcuno impara, è un'altra cosa, è una comunità sperimentale. Una comunità che polifonicamente legge e analizza il lascito della tradizione, che è quella che ci viene da tutto il mondo, da quello che si è scritto da Omero fino a ieri. È una comunità che coralmente e con coscienza legge, cioè fa quello che ognuno di noi nella sua vita fa con abbandono, in solitudine e silenzio. Ma quando si scrive si è sempre soli. Anche chi partecipa al laboratorio scriverà da solo e nel silenzio. Nessun laboratorio può insegnare quell'attitudine mistica, di attesa, che lascia venire alla luce le parole, le figure, i silenzi, i misteri. Quell'attitudine a riportarli alla luce, solitaria e silenziosa, ognuno deve trovarsela da sé. Noi la possiamo solamente suggerire. Quando si torna insieme, il singolo smette i panni del mistico, e la comunità indaga e fustiga come Savonarola. E l'insegnante guida il processo, coordina il lavoro, senz'altra autorità che l'esperienza.


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Questo pezzo fa parte di uno Speciale sulla scrittura curato dai ragazzi della prima edizione del corso Il lavoro editoriale.
Gli altri articoli, un'intervista a Giorgio Vasta e quattro storie brevi di Giordano Meacci, verranno ripubblicati su questo blog nelle prossime settimane.