domenica 15 gennaio 2012

Notizie da New York



Giulia Pietrosanti, ex corsista della terza edizione de Il lavoro editoriale, ci racconta in una manciata di mail la sua esperienza di stage in un’agenzia letteraria di New York.

New York, 29 luglio 2011
mail a Marco Cassini
Sbarcata sana e salva ma brutta avventura con la polizia aeroportuale di Newark. Volevano rimettermi sul primo aereo e rispedirmi a Roma. Quelli che stanno tre mesi a volte li passano a un secondo controllo per essere sicuri che non abbiano intenzione di lavorare in nero negli Stati Uniti. Mi hanno fatto una specie di interrogatorio, detto che era evidente che io fossi lì per cercare il lavoro che non trovo in Italia, che nessuno si ferma tre mesi se non ha intenzione di restare, che i miei soldi erano troppo pochi (avevo trecento dollari in tasca, ho replicato che avevo una carta di credito e che quello era il cash per le prime spese, hanno detto che non avevo comunque abbastanza soldi, guardate il mio estratto conto, ho detto: non voglio vederlo, so che non hai abbastanza soldi).
Ispezionato il pc, il cellulare, hanno letto tutti i messaggi, tutte le mail, frugato nelle foto e nelle cartelle personali. Una poliziotta di origini italiane ha tradotto tutto quello che ha trovato. Ridevano.
Mille domande ma non mi davano il tempo di rispondere, hanno letto un messaggio di un amico che nell’augurio di buon viaggio diceva «resta lì, ti veniamo a trovare noi»: hanno detto che confermava tutto.
Io ho pensato bene di alterarmi, ho alzato un po’ la voce. Pessima idea, quello più cattivo di tutti mi ha strillato in testa di stare zitta e seduta, di rispondere solo se interrogata e di cambiare atteggiamento perché ero a tanto così dal tornare in Italia col primo aereo. Non ci potevo credere, era come nei film.
Poi è arrivato un supervisore ragionevole, uno che almeno faceva le domande e ascoltava le risposte, gli ho spiegato per la trentesima volta tutto, gli ho mostrato lo scambio di mail con l’agenzia letteraria americana in cui chiedevo se avessi bisogno di visti particolari per il mio internship e in cui mi veniva risposto che sarebbe stato sufficiente un Esta di novanta giorni, dal momento che da loro ne avrei passati solo sessanta. Mi hanno lasciata andare dopo due ore. Quello super cattivo mi ha detto sappiamo dove abiti e tutto, se ti trovo a lavorare senza permesso ti metto un timbro sul passaporto e non torni mai più.
Sei solo chiacchiere e distintivo, ho pensato.
Vabenecertograziescusi, ho detto.


New York, 10 agosto 2011
mail a L.M.
Io sto bene.
Mi sembra di essere uno sputo in una città che ti corre sopra
che ti digerisce come fossi un pesciolino nello stomaco di una balena                      
non ti mastica, non sa nemmeno che ci sei.
Gli sbalzi di temperatura sono la prima esperienza contro natura che sperimenti
una terapia d’urto, un battesimo.
Fa caldissimo, quaranta gradi e un’umidità che ti lecca il collo e le sopracciglia
poi bruscamente il freezer dell’ufficio e dei supermercati
in una frazione di collasso che ti ricorda a che specie appartieni
quella che soffre di cervicale.
Quando esci sei un raviolo al vapore appiccicoso, di quelli trasparenti che si vede il ripieno;
appena ti ci abitui riprendi una metro artica e le prime notti non dormi perché hai la testa spaccata a metà.
Qui non ci sono cose piccole
i muffin sono grandi come panettoni
le uova le vendono solo in confezioni da venti
il latte sembra una tanica di benzina
il concetto di pensare in grande sembra applicato alle cose da un bambino che lo ha preso alla lettera
tutto è estremo
l’altezza, la grandezza, la quantità
i primi giorni ti senti smembrato col milione di persone che hai intorno
senti di assimilare la velocità degli altri e non dosare la tua
se perdi di vista il nord non capisci più in quale direzione della griglia stradale sei
e percorri isolati inutili.
A Brooklyn invece è sempre una bella domenica
esci e vai a fare colazione nel posto dove ti conoscono tutti
(che poi non è vero, ma loro ti chiedono come stai oggi come se ci fossi sempre stato)
compri il new york times, il caffè nel bicchierone
la sera corri al tramonto e ti senti felice di essere un cliché.
Questo quartiere ti accoglie, è a misura d’uomo
ci sono bistrot, negozi biologici, ristoranti bar baretti
il panettiere il fioraio il gelato italiano
la gente non butta i libri, li lascia sul davanzale per chi vuole prenderli.
Nel fine settimana fanno il mercatino nel cortile d’ingresso
giocano a scacchi sulle scale e sono tutti bellissimi
i bambini tornano a casa con la divisa della scuola
le coppie portano fuori il cane come in tutto il mondo
ma qui non so, lo portano fuori meglio.
Mi sa che ho capito che quando non devo andare in agenzia
preferisco restare da questo lato
e guardarla solo, Manhattan
che da qui è bellissima
in effetti finché resti a Brooklyn non hai la sensazione di essere dall’altra parte del mondo
ti senti stranamente a casa
superato il ponte, invece, i grattacieli ti ricordano quant’è lontano il cielo
quant’è lontana casa
quant’è Lontano.


New York, 23 agosto 2011
mail a Mamma
Mamma stai tranquilla, il terremoto io non l'ho neanche sentito.
Tutto bene.


New York, 24 agosto 2011
mail a L.M.
Vediamo se riesco a mandarti un’idea della mia giornata da intern.
L’agenzia letteraria è all’ottavo piano di un palazzo di Chelsea
l’arredamento è pazzesco, ogni scrivania è circondata dalla propria libreria personale
e c'è una vetrata nella stanza principale davanti alla quale hanno piazzato un’altalena a due posti
per guardare fuori e prendersi una pausa caffè dando le spalle all’open space.
La sala riunioni è nascosta, la porta di ingresso è ricavata in una libreria a muro fatta di tronchi
e se è chiusa lo spazio sembra finito lì, sono solo libri.
Divano divanetti poltrone per accogliere gli ospiti, gli autori che molto spesso vengono a firmare le copie del libro appena uscito.

Siamo in otto,
sono molto gentili, molto seri
il primo giorno dieci minuti di presentazione
poi quella è la scrivania e inizi subito a lavorare.
Io ho un’ora di pausa pranzo
loro si alzano solo per fare pipì
mangiano davanti al computer e al telefono
il paese del delivery garantisce che tu non muova un muscolo
e che il pranzo arrivi direttamente sulla tua scrivania in ufficio
tutti molto silenziosi
la mattina smisto le mail che arrivano
e le segnalazioni di Google Alert che parlano dei libri che l’agenzia cura
li leggo, li divido a seconda che si tratti di articoli di stampa, di blog o di pubblicità
e li sistemo nel database.
È un lavoretto non proprio di concetto
ma mi aiuta a rendermi conto di come funzioni l’informazione letteraria qui
e dei canali che utilizza.
Di alcuni libri sta uscendo la versione cinematografica
e anche in quel caso c’è da valutare articoli e pubblicità.
Il pomeriggio invece devo leggere i manoscritti
ne arrivano in media cinquanta a settimana
quando l’agenzia è interessata chiede all’autore un sample di dieci pagine
o direttamente tutto il testo.
Devo esprimere un parere, attaccare un post it colorato
sì o no
e abbozzare due parole di motivazione.
La ragazza che supervisiona il mio lavoro
(ha ventitre anni. la cosa mi ha turbato)
deve aver notato la mia espressione di stupore e si è sentita di specificare
stai tranquilla, dopo la tua valutazione passano almeno per altre quattro mani.

All’inizio ero intimorita
valutare lo stile di un autore
l’interesse della trama
la piacevolezza e il valore di un manoscritto
in una lingua che non è la tua
è come parlare d’amore in un’altra lingua,
non hai padronanza delle sfumature.
Ma una volta che inizi a leggerli
ti rendi conto che è facile orientarsi
capisci che spesso quando proprio non cogli il senso
è perché il testo è barocco nell'aggettivazione
i periodi sono troppo lunghi
o la trama e lo stile ricordano un film di spionaggio
sottraendosi da sole all’interesse di un agente che segue prevalentemente fiction.

Il materiale interessante si riconosce sempre
la freschezza e la novità si percepicono al di là della struttura
così come la follia e l’autocompiacimento.
Continuo a pensare comunque che se mi trovassi ad avere ora tra le mani
uno che scrive come Wallace, per esempio,
avrei un cinquanta per cento di probabilità di riconoscerne il genio
e un cinquanta di attaccare il post it sbagliato.
Quando mi viene il dubbio
scrivo dubbio.
Appunto sempre i nomi degli autori
per vedere se alla fine della settimana
leccherò una busta indirizzata a loro con una lettera di rifiuto
o con l’invito a mandare l’intero lavoro.
Il responsabile dei diritti stranieri
mi ha chiesto di valutare un libro italiano.


New York, 27 agosto 2011
mail a Mamma
Mamma stai tranquilla. lo so: la polizia, il terremoto e adesso anche Irene. sembra una barzelletta.
Non ti preoccupare, loro devono essere allarmisti e prendere tutte le precauzioni nell’eventualità che diventi un uragano di potenza tre (sì, quello col vento forte che spacca le finestre). Ma non è detto che arrivi a quell’intensità.
E lo so che sono nella zona B, che è a rischio inondazione
e lo so che Obama ha detto ci troviamo di fronte a un fenomeno storico
e che Bloomberg ha detto prepariamoci al peggio
e che hanno chiuso la metro e i ponti per la prima volta nella storia di questa città,
ma non ti preoccupare lo stesso. io ho fatto provviste di acqua, cibo e torce e non sono da sola.
qui manca un’ora al coprifuoco e la gente è ancora in strada a fare jogging.


New York, 20 settembre 2011
mail a L.M.
Manca poco più di un mese al mio ritorno in Italia.
Mi sforzo di costruire uno sguardo d’insieme e di capire da dove venga questa profonda ansia al pensiero di dover rientrare. qualcosa non quadra. voglio dire, io vivo da due mesi in una città che ha visto la gente volare giù dal centesimo piano di due grattacieli (subito prima di veder crollare proprio i grattacieli); che a distanza di dieci anni da quell’evento continua a guardare con terrore il cielo quando quattro elicotteri restano sospesi agli angoli di un hotel a Midtown; che tiene sopito quello stesso trauma storico anche quando un palazzo trema per un terremoto, quando si prepara a un uragano invece che a un brutto temporale tropicale o quando addestra la polizia ad accogliere come un potenziale criminale anche un’italiana di ventisei anni che arriva per un’esperienza all’estero.

Questo è il posto dove mi chiedono il documento per bere una birra anche se è evidente che ho più di ventuno anni, dove non puoi toccare le persone se non le conosci perché potresti essere denunciato per violenza, dove la mattina continuo a stupirmi del fatto che arrivando al lavoro sia normale non dire buongiorno, dove sto male alla vista di gente che consuma senza criterio bevande colorate piene di ghiaccio e dove subisco costantemente un’ossessione bulimica generale per il cibo.
Il pollo ciccione imbottito di antibiotici mi nausea e devo ricordare al tipo che mi fa il frullato a pranzo che non ci voglio le vitamine dentro.
Il gigantismo qui mi divora eppure adesso mi sembra di avere più paura del Piccolo.

È come se dietro all’esagerazione e al mastodontico avessi annusato un materiale ragionevole che non avevo previsto e che era importante incontrare. Le distanze, l’affollamento, le idee, le immagini, le provenienze hanno superato talmente tanto i limiti a cui i miei occhi sono abituati, che una volta accolti nel quotidiano mi costringono ad allargare il cervello e reimpostare il pensiero.

Sento questa cosa incomprensibile di New York di avere qualcosa di rassicurante nonostante l’amplificazione surreale di tutto. l’ansia dell’attentato e dell’abuso di potere ma la sensazione di tornare a casa la notte da sola ed essere nel posto più sicuro della terra. mangiare tutti da soli al ristorante ma essere talmente in tanti a farlo da rendere non percepibile la solitudine.
La presenza di tutto il mondo e una concentrazione di diversità talmente concreta che puoi solo infilare tutti nella categoria del genere umano e sentirli famigliari.

In questa città ognuno che arriva aggiunge in pezzo, ho la sensazione che prima o poi scoppierà ma che ancora riesca a tararsi sull’anima di chiunque, che sia sempre impacchettato questo dono di poter trovare qualsiasi cosa, ognuno la sua, di non dividerla con nessuno e di dividerla con tutti. Gli spazi sono pensati perché l’arte, la musica, il paesaggio, i servizi, il relax, lo stress e l’emozione siano accessibili a chiunque. Le persone si abituano ad autopromuoversi, vogliono sempre dirti quello che pensano e sapere tu cosa pensi, fanno tutto in mezzo agli altri, fanno yoga nel parco, cantano a voce alta per strada, ballano nella metro e fanno in pubblico tutto quello che noi ci sentiremmo degli imbecilli a fare. E lo so che non lo fanno perché sono più liberi, che dietro a questo c’è qualcosa di pericoloso. Ma so che devo rubare qualcosa allo slancio e alla vertigine.

Questa città ti chiede di essere coraggioso.
Ecco, forse questo.


Roma, 25 ottobre 2011
mail a J.M. (avvocato di immigrazione)
Cara J,
sono tornata da due giorni in Italia.
È stato un vero piacere conoscerti. Spero di mandarti presto buone notizie e poter iniziare a preparare le carte per il visto di un anno.

Giulia