L'errore

di Giuseppe D'Onofrio

I raggi del sole di maggio entravano radenti dai finestroni del decimo piano e infastidivano una buona metà dei pazienti in attesa. Quelli più magri ed esperti, con le buste e le carte più pesanti, s’erano accomodati da ore sulla fila opposta di poltroncine di plastica, spalle alla parete. Un’infermiera s’affacciava ogni tanto dall’anticamera: un viso stanco con una criniera di capelli rosso fuoco. Subito qualcuno – un uomo in giacca e cravatta, un’anziana infagottata seguita da un vecchio magro, una giovane madre con occhi infossati e la bimba in braccio - si alzava, anticipando la chiamata, e si avviava lento o affrettato, impacciato o agile, ma sempre con una certa esitazione verso l’ambulatorio.
Una figura alta e asciutta, appena ingobbita in un camice bianco che arrivava alle caviglie, emerse dall’ombra giù in fondo e percorse tutto il corridoio a passi ampi e distratti, ciondolando due lunghissime braccia. Oltrepassò la doppia schiera dei pazienti e si fece avanti nell’anticamera. L’infermiera lo riconobbe e si ravvivò:
«Professor Gioia, è tanto che non ti fai vedere!»
«Verrò più spesso, bella, se mi guardi così».
Lei gli notò i capelli, più argentati rispetto all’ultima volta. Il naso era sempre bello deciso e le rughe stavano ancora nei punti buoni. «Anche stavolta una paziente astenica?» gli chiese incrociando le braccia.
«Brava! Un esame del sangue ci vuole quando un paziente ha sintomi che non mi convincono. Lo sai. Non posso fare a meno di voi».
«Pure questa è giovane e carina, professore?» chiese lei ancora scuotendo la testa.
«Pure questa» confermò lui alzando gli occhi al cielo.
« Che dici, vado?» domandò Gioia con un cenno del capo in direzione della porta chiusa.
«E vai, vai» tagliò corto l’infermiera «Tanto con noi fai sempre quello che ti pare».
Edo allora bussò ed entrò senza aspettare risposta. Rossana era in piedi con un bicchierino di plastica sporco di caffè e rossetto. Gli andò incontro col sorriso aperto che lui le ricordava – pensava fosse speciale, riservato a lui - e gli schioccò un doppio bacio sulle guance ispide.
«Edo bello, come stai?».
«Bene, benissimo. Ti ho portato a vedere gli esami di una mia cliente che…». Non riuscì a finire la frase. Un tipo strano, come una visione, irruppe dalla porta: «Sì, ma scusate, noi qui fuori, sono ore… Mica si può passare avanti così!».
Era un giovane magrissimo, efebico, di media statura, vestito di bianco con i sandali, la pelle del colore del marmo, i capelli d’un biondo cenere slavato stretti a coda fino in vita. Rossana, Edo e un paio di infermieri s’erano bloccati a guardarlo. Si fece avanti a passi insicuri, appoggiandosi a una sottile canna di bambù che gli arrivava alla spalla. Si sedette, con le mosse caute d’un vecchio. Le iridi chiare tra verde e azzurro, incorniciate di porcellana, si piantarono negli occhi grandi e neri della dottoressa, che aveva ripreso il suo posto dall’altra parte della scrivania. Le palpebre si aprivano e si chiudevano lente tra le sopracciglia d’oro e le belle guance pallide.
«S’accomodi, s’accomodi» disse Rossana, aggiustandosi il camice e scorrendo con l’indice una lista di appuntamenti sullo schermo. Ammiccò verso Edo: «Gioia, ti dispiace? Avviamo questa cartella e sono da te». Edo però non uscì, tanto aveva il camice.
Rossana si concentrò sul nuovo arrivato: «Il suo nome?»
«Santi Capizzi. Vito».
« Anni?»
«Ventisei». Rispondeva a bassa voce, come sfruttando gli intervalli tra un respiro e l’altro.
«Chi la manda da noi?»
«Nessuno».
La dottoressa, come Edo, era incuriosita. «Allora, mi dica. Che le succede? ». Aveva preso in mano la penna e nell’altra teneva il mouse.
«Sta scritto qua. Questo l’ho fatto la settimana scorsa. Guardi l’emocromo».
«Aspetti, signor Santi, che prima dobbiamo un momento…»
«Si però, guardi l’emocromo».
«Sì, scusi ma non è che mi può… Il medico coi pazienti ci deve parlare, se no… Mi sa che lei è un po’…» Sfogliava, parlando, le carte che lui aveva portato.
«Io ho l’anemia. Lo so».
«Lei è stato in altri centri di ematologia, vedo».
«Beh, ematologia proprio... Sono stato a Enna, a Palermo, a Napoli. Per fare contenta mia madre, senza risolvere. Tanto io poi sto bene».
«Le avranno fatto una diagnosi, una cura».
«Eeeh! Secondo loro ho l’ernia iatale, i diverticoli, i calcoli renali, le emorroidi, per quelli di Napoli dovevo avere il cancro a tutti i costi… e ferro, vitamine, l’eritropoietina pure, e l’anemia non è passata. Cioè, passa e torna. Va e viene. Io mi sa che sono fatto così. Mia madre ha detto “Ti prego, vai a Roma”, è lei che si preoccupa. Sono stato pure peggio di così e mi è passata. Perché… ma perché non guarda gli emocromi e ci sbrighiamo?».
«Non ci siamo capiti. Gli esami li ho visti, ne parliamo dopo. Ora bisognerebbe ricostruire la sua storia clinica, che non mi pare tanto chiara». Si guardò intorno innervosita e inarcò le sopracciglia ammiccando a Edo Gioia che in disparte seguiva il colloquio.
«Senta, glielo dico subito. La conosco ‘sta cosa. C’ho avuto la varicella, il morbillo e la rosolia. Ho sei fratelli e quattro sorelle, stanno tutti bene. Madre e padre, senza una malattia. Papà beve, ma è pure troppo sano. Sono disoccupato. Non ho i vermi e non ho il cancro alla prostata».
«Va bene» disse Rossana. Prese tempo con un sospiro e poi, con calma, cercò di farsi intendere: «Però senta, io vorrei che lei ci raccontasse i disturbi…»
«Affaticabilità, insonnia, dispnea anche per piccoli sforzi tipo fare le scale».
«Ma si è studiato l’enciclopedia med…»
«Facevo l’infermiere».
«Ah…»
«Quindi le posso dire: guardi gli emocromi».
«E come mai non lavora?»
«Dottoressa, lavoravo a Calascibetta, una casa di suore… Facevo le notti, contratti a tempo».
«E adesso?»
«Adesso ho l’anemia».
« Senta, facciamo una cosa. Intanto comincio a visitarla… Ha perso mai sangue con le feci? Si sdrai lì».
«No, mai. Che vuole fare?»
«Sangue vivo, da sporcare di rosso la tazza? Ha mai notato un colore strano, come catrame? Si sbottoni per favore, vediamo la pancia».
«Senta, ho già fatto tutto. È il sangue che ha problemi, non la pancia. Non serve che mi spogli».
«Ma guarda che tipo». Cercò con gli occhi lo psichiatra: «Gioia, mi sa che questo signore te lo.... Senta, si tiri giù i pantaloni».
Lui, di ghiaccio, scandì: «Non c’è bisogno. Si legga gli esami e se non li capisce mi affidi a un altro». Fissò Edo negli occhi anche lui: «Questa mi vuole vedere nudo».
«Ma che…?» fece lei pestando un piede.
«Mi vuole guardare la minchia…». E con un gesto rapido e improvviso le rovesciò addosso la scrivania. Poi cominciò a raccogliere dal pavimento le cartelle e a lanciarle attraverso la stanza una a una, coi fogli che volavano dappertutto. L’infermiera dai capelli rossi, allarmata dal chiasso, si precipitò dentro.
« … la smetta, non può… Lasci quelle cartelle, no, diavolo, basta! Per favore, aiutatemi, Edo corri!»
Edo, autorevole, lo prese sottobraccio e lo portò fuori. Cominciarono a discutere, seduti nella sala d’attesa, senza curarsi dei pazienti intorno. Una signora anziana, piena di lividi sulle braccia e sulle gambe, li guardava incuriosita. Due ragazzi, lei incinta, continuavano a parlare dei fatti loro. Dopo alcuni minuti Edo e Vito tornarono dentro come se non fosse accaduto nulla.
«Ecco, Rossana…» fece Edo.
«Sì, ma ora aspettate» rispose lei. Li fece rimanere in sala d’attesa fino a che non finì con il paziente che era dentro. Senza più visitarlo, disse poi a Vito che l’anemia era grave - sette di emoglobina – e gli fece un prelievo di sangue sufficiente per riempire cinque provette. Poi salutò Edo: “E adesso non sparire per altri due anni, eh!». L’infermiera dalla criniera rossa, che ancora raccoglieva e riordinava cartelle, si girò appena, coprendosi un sorriso con la mano.

Vito Santi Capizzi andò quasi tutte le mattine al Day Hospital. Rossana s’impegnò a stabilire un rapporto accettabile. Lui riportò la sua storia clinica come una lezione imparata a memoria. Era diventato anemico da un giorno all’altro tre anni prima. Rimaneva stanco morto a stropicciare le lenzuola tutto il giorno e usciva di notte, quando si sentiva meglio. I capelli avevano preso ad assottigliarsi e a schiarirsi, li ritrovava a manciate sul cuscino; le unghie erano diventate opache e si rompevano. Un nervosismo costante lo afferrava dentro: una paura, senza sapere di che; con gli altri era rabbioso. Negli ospedali gli tiravano il sangue per le analisi e gli davano le cure. Le seguiva e stava meglio, poi tornava l’anemia, sempre daccapo. Un giorno gli venne una crisi di panico prima della visita. Gliene tornarono ancora e non smisero più. Sveniva e lo ricoveravano; dopo due o tre giorni firmava e tornava a casa. Il padre lo ignorava, come se non esistesse. La madre gli chiedeva in ginocchio di andarsi a curare a Roma, che in Sicilia nessuno capiva niente e non poteva continuare così. Lontano da casa era stato meglio, sempre sfiancato ma l’angoscia s’era placata. La dottoressa decise subito che la terapia medica non sarebbe bastata. Oltre all’anemia c’era un problema di ansia e, molto probabilmente, un disturbo di personalità, che andavano consapevolizzati e affrontati. Gli prescrisse, tanto per cominciare, un ciclo intensivo di psicoterapia: così, dopo il Day Hospital, Vito andava in seduta da Edoardo Gioia, detto Edo, psichiatra e terapeuta di scuola umanistico-esistenziale.

Per un paio di settimane non fecero che esplorarsi in superficie. Poi un giorno Vito arrivò con il suo passo languido, in pantaloni bianchi di tela larghi, scarpe da tennis vecchie senza calzini e la solita cannetta di bambù. Sedette sulla poltrona piccola e comoda, che un tavolino basso con una scultura africana di legno separava dall’altra identica dello psichiatra, posta di fronte con angolo di poco più di novanta gradi. Si muoveva irrequieto, accavallando e riunendo le gambe di continuo. Edo era senza camice: appoggiato allo schienale con un blocco d’appunti in mano e la pipa spenta sulla mensola accanto, gli rivolse uno sguardo caldo e accogliente: «La vedo bene, Vito, in forma. Meno male, abbiamo del lavoro da fare, io e lei». Sapeva che per un buon contatto col paziente non doveva indagare con domande dirette, né interpretare o giudicare le sue parole. Ci vollero diverse sedute perché cominciasse a rispondere senza riserve alle sue caute stimolazioni. Ma quando si decise, Vito Santi Capizzi si protese sulla poltrona verso il terapeuta e cominciò a raccontare, straripando, di quando il padre, dopo aver chiuso ogni sera la tabaccheria, andava fuori a riempirsi di vino bianco e sambuca. Era un omone legnoso come un albero, con i capelli pel di carota, il collo grosso, la pelle lentigginosa e gli occhi piccoli. I figli, nascosti dietro una porta, lo sentivano quando rientrava tardi: urlava che la cena era fredda e faceva schifo, e finiva sempre per picchiare la moglie. Lei era minuta, con una chioma folta ancora nera e il viso giallognolo. Non diceva niente, la mamma, e il silenzio irritava lo stronzo ancora di più. Se i figli si intromettevano le prendevano anche loro. Alle femmine certe notti era riservato pure un altro trattamento. Vito era stato picchiato a sangue solo una volta e non era intervenuto mai più. Metteva la testa sotto il cuscino e piangeva di rabbia.
«Mi sta dicendo che si sentiva impotente di fronte alla violenza di suo padre?» disse un giorno Edo protendendosi un poco anche lui dalla poltrona.
«Sì, sì. Esatto. Mi figuravo le maniere per ucciderlo. Infilargli un veleno nelle vene. Scioglierli qualche pillola nel vino. Per questo ho fatto la scuola infermieri». E lo sguardo da vacuo gli si fece intenso, seguendo un ricordo che tenne per sé.
«Ma lei non poteva far nulla».
«Sì che potevo; ma non ero capace, non ero forte abbastanza».
Senza spostare lo sguardo dagli occhi d’acquamarina, Edo abbozzò una tecnica per intensificare il contatto con quei momenti passati: «Ora lei diventi Vito adolescente, nella sua camera, di notte con la testa sotto il cuscino. Papà urla contro mamma. Provi a dar voce alla sua rabbia».
«Ma vaffanculo, dottore. Curatemi l’anemia, no ‘ste cazzate».
Da allora in poi si dettero del tu.

Agli ematologi non sembrava un caso difficile.
«Senta, Capizzi» gli diceva Rossana senza troppi dubbi. «Lei ha un’anemia da mancanza di ferro. Se lei fosse una donna, saremmo tutti tranquilli e contenti. La mandiamo dal ginecologo, lui le dà la pillola, le mestruazioni si regolarizzano e abbiamo risolto. Ma lei è un maschio, e giovane. Non ha le mestruazioni: giusto? E allora dobbiamo trovare da dove perde ‘sto sangue. Non è che ha le emorroidi?»
No, non le aveva. Allora poteva essere un tumore, benigno o maligno, che sanguinava lentamente, inavvertito, dallo stomaco, dall’intestino o da un rene. Vito si sottopose docile a una marea di accertamenti. Purché che non gli mettessero le mani addosso. Tutti i risultati furono negativi. Mucosa atrofica, pallida, integra: solo i segni della mancanza di ferro.

La psicoterapia continuava tre volte a settimana. Vito si mostrava via via meno sfuggente e più disponibile a lavorare sulla consapevolezza. Sentiva di non aveva difeso la madre e le sorelle, per forza era angosciato. Edo era assorbito dalla sua personalità mutevole: « Non ti preoccupare, Vito, ti guariranno dall’anemia. È semplice. Ma io non potrò cancellare altrettanto facilmente il male che hai dentro, per quello ho bisogno del tuo aiuto e della tua voglia di cambiare». Il calore di Edo scioglieva qualcosa del gelo di Vito e tra i due si andava sviluppando un’intimità instabile. Vito non mancava più una seduta: arrivava tardi e alla fine non voleva andarsene, aveva paura che gli tornassero gli attacchi di panico. Nemmeno per Edo era facile chiudere, ogni volta. E le sedute duravano un’ora e un quarto, un’ora e mezzo, col paziente successivo ad aspettare. E aveva cominciato a saltare la supervisione del martedì.
«La tua malattia non la capisco ancora bene», disse un giorno Edo mentre raschiava il fornello della pipa con un coltellino: «Ma sono certo che è il tuo grido d’aiuto. Dobbiamo imoparare insieme un modo più semplice e diretto per chiederlo ».
«Io non lo so mica chi è quello che grida», rispose Vito con un’occhiata, chiudendosi dietro la porta.

Alla fine di luglio Edo incontrò la dottoressa. Fu lei a fermarlo in mezzo a un lungo corridoio poco illuminato. Gli parlava a voce alta con confidenza, senza preoccuparsi di quelli che passavano. Edo era imbarazzato.
«Senti Gioia, non ci stiamo capendo niente». I grandi occhi neri erano spalancati più del solito. Era proprio bella Rossana. «È una grana quel ragazzo. Non gli è rimasto un milligrammo di ferro. L’abbiamo rivoltato di dentro e di fuori. Non abbiamo trovato un cavolo: i globuli bianchi normali; le piastrine normali. Solo i globuli rossi continuano a calare e sono sempre più piccoli. Come lo perde il ferro, se non sanguina da nessuna parte?».
Edo ci teneva a mostrarsi distaccato: «Non chiederlo a me, sei tu l’ematologa». Una strana disperazione cominciava a farglisi strada dentro, e un rancore per questi deficienti che non sapevano rimettergli a posto il ragazzo.
«Gioia mia, guarda che questo ci rimane. Ha fatto tanti prelievi e iniezioni che non gli si trova più una vena. Lunedì scorso l’emoglobina era risalita, sembrava che rispondesse alle endovene di ferro. Bene, gli dico, dai che va bene. L’altro ieri, dopo una settimana, si ripresenta ed è sceso a sette un’altra volta. Come se gli evaporasse col fiato, il sangue. E un giorno è isterico, selvatico, ha la paranoia di farsi toccare. E la volta dopo arriva quieto come un agnello sull’altare. Eccitato, pronto a farsi fare qualsiasi indagine. Mi sa che gode come un matto a confonderci le idee. Ma tu lo stai seguendo?».
«Sì. Certo. Tre volte a settimana».
«Ah, vedi! E come è messo? Ti rivela da che pianeta è sbarcato?»
«Lavoriamo, c’è da fare». Ma di che s’impicciava? Cercasse di guarirgli il sangue, per il resto era meglio che lasciasse perdere: «Ma che pensate di fare per l’anemia, allora? Possibile che...».
«Ci manca la biopsia del midollo osseo. A questo punto può avere solo una brutta mielodisplasia».
«Cioè? Una leucemia?» chiese Edo con un’accelerazione del ritmo del cuore.
«No, è una malattia del midollo. Delle cellule staminali... Ma è strano, i globuli rossi sono così piccoli... non è comune».
«E come si vede?».
«Ci sono alterazioni morfologiche delle cellule, e poi la genetica. Domani aspiriamo il midollo». Gli appoggiò la mano sull’avambraccio e sfoderò un tono più intimo: «Ma tu, Edoardo, come stai? È un po’ che mi sembri preoccupato. Sei sciupato. Hai qualche guaio?».
«Ma no, tesoro. Che dici. È tutto a posto. Ti metti a fare la psicologa? Proprio tu».
«No, ma se volessi aprirti... Io ti conosco. Ti va se ci vediamo una sera?».
«Ma certo dottoressa».
«Allora... ».
«Ti telefono io».

Una mattina Vito si presentò senza appuntamento. Era frizzante, leggero, rideva e alzava la voce con allegria. Edo era convinto di conoscerlo a fondo ormai; e ci rimase quasi male quando lui gli raccontò con parecchi dettagli di quando aveva amato un collega più giovane a Calascibetta. Per questo le suore l’avevano cacciato. Edo si giudicò un coglione: era stato capace, questo figlio di buona donna, di nasconderglisi per sedici sedute. E poi sentiva una specie di sensualità che lui gli offriva. A casa non smise di pensarci, mentre si rigirava nel letto per riaddormentarsi e l’alba cominciava tra le persiane. E s’arrabbiava per essere turbato da una storia umana qualsiasi, che in altre condizioni l’avrebbe sì interessato professionalmente, ma non certo coinvolto. Che c’era qui che lo prendeva? Aveva fatto male a smettere di andare in supervisione, porca puttana. E però sentiva l’urgenza che arrivasse il momento della seduta.
Da quella volta Vito gli fu più vicino. Edo sentiva un piacere secco crescergli nella carne.

L’aspirato di Vito non dimostrò anomalie: c’erano anzi molte cellule normali, segno che il midollo reagiva bene all’anemia. Questa però peggiorava, tanto che i medici decisero di ricoverarlo per sottoporlo a trasfusioni di globuli rossi. La dottoressa sapeva bene che era una cura solo sintomatica e non lo avrebbe guarito: ma pensava che non se ne potesse più fare a meno, l’anemia avrebbe danneggiato il cuore. Intanto, almeno, ci si metteva una pezza.
Il reparto anche d’agosto era affollato di pazienti gravi. Solo alcuni s’alzavano ogni tanto alla ricerca d’un refolo d’aria, trascinando le piantane delle fleboclisi e dondolando le teste senza capelli. In alcune stanze era necessario indossare camici verdi, con cappelli, soprascarpe e mascherine sterili come in sala operatoria. «Le malattie del sangue non lasciano scampo», disse a Vito il vicino di letto, «e le cure ti spezzano pure di più».
E invece, al contrario degli altri, Vito guarì. Dopo cinque trasfusioni e le solite endovene di ferro la sua emoglobina tornò quasi normale e, imprevedibilmente, continuò a salire anche nelle settimane successive. Non c’era una spiegazione scientifica a questo fenomeno e la dottoressa non credeva ai miracoli.
«Tu saresti un caso da pubblicare, Santi Capizzi» gli diceva allargando le labbra rosse in una risata. «Se solo ci avessimo capito qualche cosa!».
«Dottorè, lei è contenta, ma io sto peggio di prima», rispondeva lui serio.
E lei: «Beh, adesso fatti aiutare dal tuo psichiatra».
La carnagione gli diventava rosea, la frequenza cardiaca rallentava, i capelli s’irrobustivano. Ma gli attacchi di panico avevano ripreso a morderlo. Edo lo andava a trovare tutti i giorni, ma non riusciva a portare avanti un trattamento coerente. L’intimità era perduta, l’angoscia invadeva gli spazi che avevano pazientemente recuperato.

Ai primi di ottobre gli dissero che era in dimissione. Ma Vito era spaventato.
«Edo, non voglio uscire. Edo, da solo mi ammazzo».
«Ti senti così perché qui dentro si perde il contatto col mondo».
«Edo, diglielo tu. Fuori sono cattivi. Ho paura di tutta quella luce. Fuori mi ammazzo».
Edo sudava. Sapeva che era sbagliato, ma doveva rispondere a quel grido d’aiuto. Per conto suo, poi, non avrebbe chiesto di meglio.
«Ascolta Vito, forse hai solo bisogno di una mano. Facciamo una cosa. Mi prendo una settimana di ferie e ti preparo la cameretta degli ospiti. Così ti riabitui piano piano a tornare fuori. Ho una casa grande; e sempre vuota».
A casa di Edo il ragazzo sembrò aver ritrovato la voglia di vivere. Senza l’anemia era una bellezza. Si nutriva in abbondanza, anche se solo di biscotti secchi, frutta e il prosciutto crudo da cui rimuoveva il più piccolo filo di grasso. Con la temperatura ancora mite, tutte le mattine faceva esercizi di ginnastica a torso nudo sul terrazzo, in mezzo alle piante. Edo stava seduto a osservargli le labbra che si ammorbidivano come pesche. Gli addominali prendevano forma giorno dopo giorno sul ventre piatto. Per il primo periodo non lo lasciò mai solo: riceveva i pazienti nello studio di casa, al pomeriggio. Con Vito non aveva ripreso la psicoterapia: s’era stabilita un’intimità più profonda. La felicità di Edo era ovattata e inattaccabile. Il mondo fuori era solo un fastidio.
Un po’ alla volta ricominciò ad andare in clinica. Vito era molto attivo, perfino agitato. Teneva la casa pulita e ordinata, potava e concimava le piante, imparò a cucinare per Edo. Lo viziava. Ritinteggiò le pareti e mise in ordine la libreria. Soltanto l’idea di uscire continuava a terrorizzarlo e gli era ritornata una mutevolezza d’umore, un’indifferenza enigmatica che lo coglieva a tratti e lo rendeva diverso per giornate intere. Nonostante le insistenze di Edo, non era più voluto tornare al Day Hospital, neanche per un controllo. Non voleva più medici, né prelievi. Si divertiva molto però a ricordarseli; prendeva in giro la dottoressa, labbra-unghie-occhi: «Edo, quella ti vuole. Ti si mangia se ti piglia, la dottoressa!». Che spasso le discussioni senza fine sul suo caso. Come ci restavano quando ogni ipotesi diagnostica si rivelava fasulla. Era un sopravvissuto: era invulnerabile. Cominciò a uscire senza dirlo, quando Edo non c’era.
Ogni tanto Edo credeva di notare un ritorno di pallore, una fiacca mattutina, un nervosismo. E s’agitava: «Ti vedo strano. Vito, facevi schifo quando t’ho conosciuto. Non è che mi torni come prima? Non riuscivi a muovere una mano senza che ti venisse il fiatone».
«Non rompere».
«Ti devi andare a controllare, ti prego dammi retta, stavi così bene».
«Sei tu che stavi bene. E adesso come stai? Sei nervoso. Perché non ci vai tu a farti visitare dalla tua dottoressa?».

La mattina del 28 novembre Edo, convocato dall’Associazione Donatori, si recò come ogni quattro mesi a dare il sangue. Compilò la scheda con le domande sul suo stato di salute; gli misurarono la pressione e l’emoglobina con la puntura del dito. Era idoneo. Si accomodò fuori dalla sala e si mise a scorrere il notiziario dell’associazione lasciato sul tavolo. C’era sempre più bisogno di donatori, l’ultima estate erano saltate centinaia di operazioni e di trapianti. Di solito l’attesa era breve, ma Edo, nervoso, voleva sbrigarsi. Si affacciò per controllare se il suo turno fosse arrivato. Quello che vide fu Vito, sdraiato sulla poltrona in fondo, con la manica della camicia arrotolata, il laccio emostatico annodato stretto e l’ago fissato con il cerotto sul braccio. La sacca quasi piena di sangue, in basso, oscillava ritmicamente sulla bilancia.

La sera dopo Edo uscì molto tardi per buttare i tre sacchetti, il giallo, il rosa e il blu, della spazzatura differenziata. Sul marciapiede, al riparo dell’ombra che i cassonetti multicolori disegnavano sull’asfalto, sciolse il nodo del laccio di quello blu. Tirò fuori i pezzi che conteneva e li esaminò con cura, allineandoli sul marciapiede; poi infilò tutto dentro di nuovo, riannodò il laccio e gettò il sacchetto nel cassonetto per vetro e plastica. Ripeté il procedimento con il sacchetto rosa della carta; tirava un vento freddo che faceva volare i fogli posati per terra. A un tratto raccolse qualcosa e l’osservò a lungo con attenzione. Uno straccio macchiato: sbagliato, pensò Edo, questo andava nel sacchetto dei rifiuti organici,. Richiuse, gettò tutto e tornò a casa.

Al mattino uscì verso le nove e mezzo. Dopo qualche minuto rientrò senza fare rumore. Vito dormiva ancora. Edo rimase in silenzio nella penombra, fino all’ora di pranzo. Fece lo stesso più volte nei giorni seguenti. Vito non se ne accorgeva e quando se lo ritrovava in casa non mostrava sorpresa. Tra loro si stendeva come un’ombra gelata di silenzio. Vito tornava diafano e sottile, come quando s’erano conosciuti. Nel pomeriggio della vigilia di Natale Edo effettuò un ennesimo rientro a sorpresa. Non trovò nessuno in casa. Poi udì dietro la porta del bagno un rimestare. Le luci dell’albero s’accendevano a intermittenza inondando il corridoio di riflessi viola, verdi e azzurrini. Cominciò a scorrere l’acqua: erano i rubinetti della vasca. Edo, lì fuori, non si mosse per un periodo eterno. Poi sollevò la mano e posò le dita sulla maniglia. Il suo udito era teso al massimo: avrebbe sentito un ragno tessere la sua tela. Tutti i muscoli erano rigidi e bloccati: solo tre dita si contrassero lentamente per spostare verso il basso la maniglia, nel tempo più lungo possibile. Quando avvertì la resistenza di fine corsa spinse con cautela spalla e avambraccio, così da imprimere un movimento in avanti impercettibile alla porta. Quello che cambiò subito fu lo scroscio dell’acqua, che s’intensificò non appena le onde sonore, non più attutite dall’impatto col legno, si riversarono attraverso lo spiraglio.
Lo spazio di pochi centimetri tra lo stipite e la battuta era sufficiente a presentargli la visione a figura intera del ragazzo in piedi di spalle, di fronte allo specchio. Teneva i capelli dentro un asciugamano bianco avvolto sul capo a mo’ di turbante. Era nudo, candido come un fauno, la pelle di latte che assorbiva le sfumature cromatiche delle luci dell’albero. Edo ammirò la fisionomia salda dei glutei e constatò la sporgenza esagerata delle ossa del bacino, delle vertebre, della gabbia toracica. Fissò lo specchio, che rimandava l’immagine del volto. A occhi chiusi, Vito teneva alzate le braccia in una posizione innaturale, in modo da infilare entrambe le mani dentro la bocca spalancata. Edo guardava e registrava con nitidezza ogni dettaglio: le labbra stirate dalla pressione, i movimenti nervosi delle dita, il deformarsi delle guance spinte da dentro, la lingua rossa rovesciata indietro, la contrazione improvvisa delle palpebre. L’indice e il medio della mano destra stringevano la farfalla d’un’agocannula, connessa a un tubicino di plastica trasparente. L’altra estremità del tubo scendeva nella vasca: sulla porcellana un flusso continuo di sangue sotto pressione arrossava allargandosi l’acqua che scolava nello scarico. In quel preciso istante Edo percepì la portata del suo errore. Avvertì il rimpianto per un tempo che si concludeva e, insieme, un senso di liberazione e di sollievo. Ancora immobile, con la mano sulla maniglia, gli sembrò che un velocissimo sguardo d’acquamarina dallo specchio incrociasse i suoi occhi spalancati. Decise che non ne avrebbe parlato mai a nessuno.
Andò in camera e si sdraiò. Il pigiama di Vito era lì, stirato sulla coperta. Chiuse gli occhi. Si tirò fuori il pene, ch’era duro da un pezzo, e si masturbò a fondo, con una stretta forte, rallentando alla fine. Lo sperma gli colò denso tra le dita. Poco dopo Vito uscì dal bagno in accappatoio, passò in cucina, aprì e richiuse il frigorifero e venne a sedersi sull’altro bordo del letto con una Ferrarelle in mano. Tracannò con un sorso lunghissimo quasi tutta la bottiglia. Indossò la parte di sopra del pigiama, s’allungò dal suo lato e si coprì fin sopra la nuca col piumone.
La mattina dopo uscì di casa. Edo non lo vide più.

Sul fondale azzurro del cielo terso e freddo di marzo, nuvole rade e alte attraversavano veloci il sole, proiettando ombre improvvise sulle impronte degli uccelli nella sabbia. L’ombrellone chiuso sbatteva a ogni folata di vento. Edo, la pipa in mano e il bavero tirato su, osservava il mare rompersi in onde lunghe sulla riva. Lasciava che lo sguardo, difeso dai Ray-ban, seguisse un gabbiano che si tuffava, il cane che piroettava sull’arenile o la bandierina rossa schiaffeggiata dall’aria. Andava meglio, ora. Prese di tasca l’agendina e l’i-phone appena regalato da Rossana. Sì, ne aveva voglia. Compose il numero di Ignazio, il suo supervisore che non sentiva da mesi. Fissò il primo appuntamento disponibile. Lei sarebbe arrivata da un momento all’altro. Ma la chiamò lo stesso, per non rischiare che il torpore l’avesse vinta ancora. Lo sentiva incombere, quel nembo scuro, sui pensieri, appena gli si formavano in testa.
«Ciao, dove sei?» le disse.
«Eccomi, ho finito tesoro. Tutto a posto» rispose allegra.
«Grande. Davvero? Hai chiuso a quattro e ottanta?»
«Quattro e ottanta. La volevano proprio, avevano fretta gli sposini. Lei, pensa, è incinta di tre mesi. Abbiamo anche l’appuntamento dal notaio, fra venti giorni».
Oh, bene, è fatta. Ok. Se non ci fossi stata tu. «Grazie, grazie sai. Giovedì vado da Ignazio».
«Che bella notizia. Tesoro, tesoro mio! Qui è tutto pronto. Io sto arrivando» fece lei.
«Anche qui ho chiuso tutto» rispose. «Appena arrivi carichiamo i bagagli e ci muoviamo». Un passeretto lo guardò, protetto in un folto di foglie di palma.
Ok. Era ora di ripartire. Di ritornare. Aveva fatto un errore, grave e colpevole; ma solo un errore. Se fai l’analista lo devi sapere che questa è una possibile azione di gioco. Freud s’era inventato un termine tecnico – il controtransfert – per razionalizzare alla sua maniera le cadute a cui erano esposti quelli che praticavano la sua cura. Il primo seguace, Breuer, s’era innamorato di Emma, una delle prime pazienti: terrorizzato, aveva abbandonato per sempre la psicoanalisi. Freud aveva predisposto strumenti di difesa per prevenire queste difficoltà: soprattutto la supervisione di un collega esperto. E’ pericoloso trovarsi soli davanti al fascino di certi misteri. L’errore fa parte del gioco, ma l’importante è riconoscerlo in tempo o, in caso contrario, rialzarsi a qualsiasi costo. Ci sono disturbi - e ricordi - che non si possono guarire.
Col vento non riusciva ad accendersi la pipa. Tornò verso le cabine dello stabilimento deserto. Un motore si fermò dietro le canne. Vide una macchia rossa che gli correva incontro: era fresca come quando era uscita di casa all’alba. Allargando le braccia accelerò il passo anche lui verso il generoso nero degli occhi, il rosso impeccabile delle labbra, l’incavo pronunciato tra i seni. Era sempre bella. Lei lo prese sottobraccio e camminarono attraverso la strada e la pineta fino a casa. Era una nave, lei, con una rotta precisa; gli sfilò il cappotto e lo spolverò dal sale, gli infilò le mani fredde nel maglione e se le scaldò contro la sua schiena con una presa sicura che finì in una lunga carezza. Edo ebbe un brivido solo al primo contatto, poi ricambiò l’abbraccio. La casa al mare di Rossana era stata la sua clinica. La sua riabilitazione era finita.

Vito fu portato al Pronto Soccorso una notte calda d’estate. Era collassato, senza pressione, in stato di semi-incoscienza. Rossana non si stupì quando se lo trovò in reparto. Riconobbe subito il pallore marmoreo e l’acquamarina degli occhi infossati in aloni scuri.
«Logico», disse allo studente che l’accompagnava nel giro. «Come poteva finire? Senza una diagnosi, senza capire che diavolo avesse... non si può curare una malattia senza nome».
Vito fu sottoposto a nuove trasfusioni. Rossana passava nella sua stanza diverse ore al giorno. Mentre il sangue scendeva a gocce lente lungo il tubo, provava a chiedere, a capire. Vito non le rispose mai: era addormentato o rimaneva ebete, con una specie di sorriso, in silenzio totale. Non mangiava niente e beveva poca acqua. Dopo una settimana, rinvigorito dalle trasfusioni, scomparve dal reparto.

Rossana non sapeva decidersi se fosse il caso o no, alla fine, di sentirsi in colpa quando, non molto tempo dopo, Vito morì. Anche perché non le venne da piangere, nemmeno un po’, quando vide in Pronto Soccorso due portantini che lo rimboccavano in una vivace coperta rossa e lo portavano via. Vide la sua cannetta abbandonata in terra: la raccolse, la spezzò in due contro il ginocchio e la gettò nella spazzatura.

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Giuseppe D'Onofrio ha partecipato alla seconda edizione del laboratorio di lettura e scrittura con Carola Susani e Giordano Meacci,
Il racconto "L'errore" è stato pubblicato su Stilos.