lunedì 7 febbraio 2011

Che cosa insegniamo quando insegniamo scrittura creativa?

di Carola Susani


Buona parte del lavoro di chi scrive, è bene saperlo, avviene a un livello alterato di coscienza. 

È vero, normalmente chi scrive ha letto molto, ha cominciato dall'infanzia e da allora non ha mai smesso. Da un certo momento in poi della sua vita, per via forse di un dubbio o della percezione di un mistero, ha dedicato al mondo uno sguardo rapace. Ha accumulato, come chiunque, una quantità di informazioni, immagini, segni. Molti di questi, nel caso suo, hanno a che fare con il linguaggio. A un certo punto ha cominciato a usare l'alfabeto come se fosse la sua chiave. Il miracolo della scrittura, dice Eudora Welty, è che il mondo nella sua concretezza possa essere raccontato dal linguaggio, e per giunta dal linguaggio scritto, che ne è una parte, ma così minima e asciutta. Che il piccolo e duro possa articolarsi al punto da tenere dentro il grande è buffo, ma è questo che dà alla scrittura la sua tensione: la scrittura è una casa di spifferi. Il mondo è sempre altrove rispetto al linguaggio ed è proprio per questo che il linguaggio lo tiene, come una calamita, perché è allusivo ed elusivo. Ma chi scrive, quando scrive, non mette a frutto con consapevolezza le informazioni che ha archiviato nella sua breve o lunga esperienza. Per scrivere non ha bisogno della pienezza della sua coscienza, anzi spesso la coscienza tutta intera gli è di intralcio. Deve lasciare che si compia un invasamento. (Non è un caso che ci siano autori che scrivono da dio soltanto se sono morti di sonno o mezzi ubriachi.) È come se chi scrive sollevasse un diaframma e si mettesse in attesa, lasciasse venir fuori quello che gli serve senza sapere da dove arriva. Potremmo dire dal subconscio o dal deposito. Chi scrive molto spesso non sa cosa, se un cappello verde con i rospi o il giro di frase di un italiano del '500 o anche di Saffo.
Ma allora? A cosa serve insegnare scrittura creativa? Cosa si insegna? C'è un momento, passato il rapimento, scritta la frase, concluso il capoverso, in cui chi scrive torna in sé, smette i panni del mistico, del mondo e di se stesso, e indossa un lungo mantello a ruota da pedante. Si rilegge, senza l'abbandono e senza il gusto che non deve mai mancare a un lettore, si rilegge con l'occhio torvo del giudice feroce. Neanche in questo caso c'è bisogno che capisca tutto quello che ha fatto, non è un critico né uno storico di se stesso, non gli interessa sapere da dove vengono immagini e calchi linguistici, non gli interessa l'origine, gli interessa l'effetto. Lo scrittore in questa fase del suo lavoro diventa un lucido manipolatore, ora sa che vuole ottenere dal lettore una reazione e va e vede se davvero ci riesce, gioca a essere lettore e controllore di se stesso.

 Il laboratorio può essere soltanto uno spazio di coscienza. Un laboratorio di scrittura è sempre un laboratorio di lettura. 

In un laboratorio di scrittura possiamo leggere insieme Flannery O'Connor, Virginia Woolf o Federigo Tozzi, studiare come hanno ottenuto volta per volta il loro effetto. Più leggeremo, più smonteremo, più depositeremo nel nostro magazzino nuovi strumenti. Un laboratorio di scrittura, per come io lo vedo, è uno spazio comunitario. Non è una classe dove qualcuno insegna e qualcuno impara, è un'altra cosa, è una comunità sperimentale. Una comunità che polifonicamente legge e analizza il lascito della tradizione, che è quella che ci viene da tutto il mondo, da quello che si è scritto da Omero fino a ieri. È una comunità che coralmente e con coscienza legge, cioè fa quello che ognuno di noi nella sua vita fa con abbandono, in solitudine e silenzio. Ma quando si scrive si è sempre soli. Anche chi partecipa al laboratorio scriverà da solo e nel silenzio. Nessun laboratorio può insegnare quell'attitudine mistica, di attesa, che lascia venire alla luce le parole, le figure, i silenzi, i misteri. Quell'attitudine a riportarli alla luce, solitaria e silenziosa, ognuno deve trovarsela da sé. Noi la possiamo solamente suggerire. Quando si torna insieme, il singolo smette i panni del mistico, e la comunità indaga e fustiga come Savonarola. E l'insegnante guida il processo, coordina il lavoro, senz'altra autorità che l'esperienza.


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Questo pezzo fa parte di uno Speciale sulla scrittura curato dai ragazzi della prima edizione del corso Il lavoro editoriale.
Gli altri articoli, un'intervista a Giorgio Vasta e quattro storie brevi di Giordano Meacci, verranno ripubblicati su questo blog nelle prossime settimane.

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