giovedì 18 aprile 2013

Fabbricare un senso per i nostri «fatti»

Una riflessione di Giorgio Vasta sulla scrittura autobiografica che passa per Fabrizio De Andrè, Steve Reich e The Cronos Quartet e Alina Marazzi per cominciare a parlare del "raccontare se stessi" in attesa del laboratorio sulla narrazione autobiografica.
 


Hotel Supramonte di Fabrizio De Andrè, Different Trains di Steve Reich, Un'ora sola ti vorrei di Alina Marazzi sono, nell'ordine, una canzone, una composizione di musica contemporanea, un film documentario. Sono anche tre diversi modi nei quali è possibile declinare un'esperienza autobiografica.



In Hotel Supramonte De Andrè, racconta il sequestro subito nel 1979 insieme a Dori Ghezzi. Si tratta di un caso limite di racconto autobiografico; se il titolo - che rimanda all'anonima sequestri sarda - non evidenziasse il nesso tra la canzone e il rapimento difficilmente si intenderebbe Hotel Supramonte come il resoconto di quello che avvenne. E in effetti la dimensione del resoconto - la canonica esplicitazione dei fatti - viene meno. Sembra quasi che Hotel Supramonte sia il luogo nel quale De Andrè fa coesistere i due impulsi opposti a raccontare e a tacere. Una canzone che nel dire nasconde ciò che dice. Come se una velatura di pudore ricoprisse ciò che diversamente sarebbe stata narrazione diretta dei fatti. Eppure - al di là della decrittazione più o meno immediata di ogni singolo verso - Hotel Supramonte ci restituisce nitidamente, negli arrangiamenti e nella grana della voce di De Andrè, un senso di struggimento.
A dimostrazione del fatto che un impulso autobiografico può anche nutrirsi della reticenza che a quell'impulso si oppone.



In Different Trains Steve Reich costruisce un tappeto sonoro - attraverso il lavoro del Kronos Quartet - sul quale monta frammenti di frasi prelevate da una serie di interviste. A descrivere origine e condizioni del suo progetto è lo stesso Reich:
L'idea per Different Trains viene dalla mia infanzia. Quando avevo un anno i miei genitori si sono separati. Mia madre si trasferì a Los Angeles e mio padre restò a New York. Sebbene all'epoca i viaggi fossero emozionanti e romantici, ora mi guardo indietro e penso che, se fossi stato in Europa durante questo periodo, in quanto ebreo avrei dovuto viaggiare su treni molto differenti.
Uno spunto personale - connettere una propria esperienza di viaggio ferroviario durante l'infanzia a quei treni che negli stessi anni attraversavano l'Europa deportando milioni di persone verso i campi di concentramento - si trasforma nell'innesco di un progetto che determina il passaggio dal privato al collettivo.



Un altro modo ancora di "usare" al meglio la propria storia trasformandola nell'occasione privilegiata per raccontare, attraverso di sé, un'epoca intera. All'origine di Un'ora sola ti vorrei c'è il lutto. Liseli Marazzi, la madre della regista, muore suicida a trentatré anni quando Alina è ancora una bambina. Molti anni dopo Alina deciderà di recuperare ore e ore di filmati familiari - pressoché interamente muti -, di visionarli e di intervenire su di essi tramite un montaggio utile non tanto alla ricostruzione di una vita passata quando a una sua vera e propria invenzione. Il suo lavoro è rivelatore. Ci chiarisce che la materia con la quale ci confrontiamo raccontandoci non è in sé attiva (il ricordo non è un'esecuzione, è un'interpretazione) ma ha bisogno di venire attivata tramite la nostra disponibilità all'invenzione; chiarisce che raccontarsi significa anche, alla lettera, "dare la parola" a ciò che diversamente permarrebbe muto.

Nella sua accezione migliore, una narrazione autobiografica è dunque lo spazio in cui i fatti accaduti (o meglio quelli che riteniamo siano accaduti) e la nostra capacità di modificarli si mescolano per fabbricare un senso.

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