lunedì 13 gennaio 2014

Un prequel: aspettative passate, presenti e future di un editoriale

Fotogramma da La storia infinita (Wolfgang Petersen, 1984).


In attesa della sesta edizione del Lavoro editoriale, pubblichiamo una riflessione del nostro ex corsista Angelantonio Citro* su aspettative passate, presenti e future di un editoriale.


Sto scrivendo questo pezzo perché me lo ha chiesto Rachele. Ciò non vuol dire che lo scrivo controvoglia, tutt’altro, solo fare la cronaca romanzata delle ultime righe del mio curriculum non lo trovo molto interessante. Dopo aver fatto il corso a minimum è quasi un anno che lavoro in un ufficio – dal quale sto scrivendo adesso – caldo d’inverno e fresco d’estate, piuttosto arioso, dove entra tanta luce.
Se devo parlare di lavoro, però, mi viene in mente un ragazzo che ho conosciuto qualche anno fa. Diciamo qui che si chiamava Salvo. È delle mie parti, campano. Siamo usciti tre o quattro volte. Io avevo ventun anni, lui venticinque. Mi veniva a prendere con un SUV della Mercedes nero nuovissimo. Ci facevamo un giro, prendevamo qualcosa da bere, mi portava a casa sua, facevamo sesso e poi chiacchieravamo. Io ero studente universitario di lettere. Già non ne potevo più dell’università, bramavo una mia indipendenza e stavo pensando a come fare per ottenerla. Questo era più o meno tutto quello che avevo da dire allora sulla mia vita e questo era quello che dissi a Salvo. Lui mi prese le mani, mi guardò i palmi e disse: viziato. Ci rimasi malissimo, ma non lo diedi a vedere. Gli chiesi di parlarmi di lui. Mi raccontò che lavorava da quando aveva 14 anni. Aiutava il padre in campagna. Si era diplomato non ricordo più in cosa e non aveva mai pensato di iscriversi all’università. Poi aveva cominciato a lavorare alla concessionaria della Mercedes. Nonostante fosse alto poco più di un metro e settanta aveva fatto il fotomodello. Era molto bello. Aveva un corpo perfetto che teneva allenato e pulito. Non fumava né si drogava. Non era ossessionato da diete o dall’eccesso di cibo. Mi mostrò diversi servizi fotografici che aveva fatto anche a Parigi. Poi aveva avuto un incidente con la moto. Si era spaccato la testa. Da poco aveva tolto i punti di sutura e gli avevano dovuto trapiantare i capelli per nascondere la cicatrice. Era vivo per miracolo, ma ora non sapeva se poteva più continuare a fare il modello. La cosa non lo rattristava molto, ora non pagavano i modelli più come un tempo perché dicevano che c’era la crisi. Da poco aveva ripreso a lavorare alla Mercedes. Spesso faceva degli orari assurdi anche perché la concessionaria era a tipo un’ora di macchina. Infatti era difficilissimo che trovasse una sera libera quando dovevamo vederci. Quella casa in cui eravamo – un appartamento su due piani con terrazzino – era sua, se l’era comprata e pagata senza fare mutui. Lui l’aveva imbiancata, lui aveva montato la cucina, comprato e portato i mobili; lui ci aveva messo il parquet. Tutto sommato però stava pensando di venderla e di prenderne un’altra da qualche altra parte, perché i vicini (parliamo dell’hinterland campano da cui io volevo fuggire) cominciavano a sparlare di lui perché era arrivato da poco così di punto in bianco, aveva il macchinone, era troppo giovane per vivere da solo e in quella casa ci entravano solo ragazzi.
A venticinque anni Salvo aveva tutto quello che io desideravo a ventuno e che continuo a desiderare. Aveva ottenuto l’indipendenza lavorando e mettendo da parte nella maniera più semplice e disarmante possibile. Lui è la persona riuscita più giovane che abbia mai incontrato. A volte mi chiedo se prima o poi riuscirò anch’io in qualcosa di simile. Mi vien da pensare che ci sono persone guidate dal dovere (come Salvo) e persone guidate dalla volontà (come me). Le prime sono quelle che riescono incondizionatamente, per le seconde è una parola. Quando mi vien da pensare questo, ecco, dormo poco.


* Angelantonio ha partecipato alla quarta edizione del Lavoro editoriale e oggi si occupa di editoria digitale «qualsiasi cosa questo voglia dire».

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