martedì 22 marzo 2011

Le spie del linguaggio

una riflessione sulla scrittura seriale per la televisione in Italia (e in italiano)

di Francesca Serafini






Che cos’è un pitch? E un concept? Che ruolo svolge un headwriter? Che cosa fa uno storyeditor? Un producer? E un actor’s coach?

Queste domande sollecitano solo alcune delle curiosità intorno alla fiction e alle tante figure coinvolte nella sua filiera produttiva. Già in questa rapida rassegna emerge però un dato: colpisce infatti l’abbondanza di anglicismi nel suo lessico tecnico. Non si tratta di una questione oziosa da puristi, perché sempre le spie linguistiche testimoniano una circostanza che meriterebbe di essere approfondita.

La mancanza di parole in una lingua denuncia infatti uno scarto tra le cose che esistono – anche oltre la cultura di riferimento di quella lingua – e l’elaborazione teorica e intellettuale che le riguardano e che sempre si traduce in linguaggio.

C’è stato un tempo in cui era la cultura italiana a imporsi in giro per il mondo, e sostrati di quel predominio sopravvivono ancora in molte lingue proprio attraverso parole italiane definitivamente accolte anche altrove come unica forma possibile per rappresentare un certo significato. Come è stato nella musica, dove anche oggi le indicazioni agogiche negli spartiti sono ovunque in italiano: come allegro, per fare un solo esempio.

L’impressione – tornando allo specifico – è che in Italia un linguaggio settoriale autoctono legato alla serialità televisiva non esiste ancora perché forse siamo in ritardo, rispetto ad altri paesi (gli Stati Uniti su tutti, poi senz’altro l’Inghilterra; e la Spagna, per stare all’Europa continentale), nel riconoscere a quel racconto piena dignità rispetto a quello espresso in ambiti considerati più artistici come la letteratura e il cinema.

Eppure da tempo – negli Stati Uniti prima e sempre più anche in Italia – scrittori provenienti dall’editoria o registi di cinema hanno cominciato a collaborare a progetti televisivi. Non si tratta per loro solo di una risorsa economica. È invece verosimile credere che in molti comincino a individuare nella serialità televisiva una forma di narrazione d’interesse e più adatta ai nostri tempi, anche grazie al maggior respiro che offre alle storie e ai loro personaggi l’ampiezza di un arco narrativo distribuito in più episodi.

E infatti in alcuni casi si è arrivati anche qui da noi a una considerazione ribaltata, se è vero, come è stato – per fare un esempio – che molti addetti ai lavori hanno riconosciuto alle due stagioni della serie Romanzo criminale un valore addirittura superiore a quello concesso in sorte al film di Michele Placido tratto dal fortunato romanzo di Giancarlo De Cataldo.

Come a dire – ma qui cessa il parallelo con Romanzo criminale – che non esiste una narrazione di serie A e una di serie B ma un modo di serie A e di serie B di realizzare qualunque forma narrativa.

Nella critica statunitense, per fare un altro esempio, una serie curata e raffinata come Mad men (ideata da Matthew Weiner) – rimanendo in atmosfere simili – è accolta con lo stesso favore del romanzo di Richard Yates Revolutionary road e del film omonimo tratto da Sam Mendes.

Una disponibilità che qui in Italia si stenta a concedere se non a pochi progetti eccellenti, col risultato che in tutti gli altri casi chiunque produca, scriva, diriga o interpreti una serie televisiva si trova fatalmente nel mezzo di una forbice: da un lato le esigenze verso il basso della committenza – all’inseguimento dell’audience e di un fantomatico spettatore medio – e dall’altro lo snobismo verso l’alto di chi a tutt’oggi considera la televisione in sé il demonio, facendo mancare una sponda esterna essenziale a chi in quell’ambito lotta tutti i giorni per puntare in alto dall’interno.

L’ambizione di Serial writers è quella di provare a fare formazione istituendo un dialogo tra alcune delle punte possibili della forbice (gli autori, una casa editrice, una rivista specialistica, un canale televisivo attento e in grado di produrre). E il nome scelto per questa impresa è espresso volutamente nella lingua delle serie più riuscite, come omaggio a quelle che ai nostri giorni costituiscono un esempio solido e convincente di ciò che – con un po’ d’impegno – si potrebbe riuscire a fare anche qui, indipendentemente dagli investimenti produttivi. Cominciando a riflettere più in generale su come nasce una serie televisiva. Che domande si pongono e quali obiettivi si danno coloro che intendono realizzarne una. Quali difficoltà incontrano lungo il cammino.

Il racconto seriale non nasce certo con la televisione. Dai cantari medievali, passando per Dickens e la letteratura d’appendice, arrivando al fotoromanzo al fumetto, c’è una tradizione ricca e variegata (sia per generi, sia per qualità raggiunta nello specifico) nella quale si colloca anche la serialità televisiva.

Il parallelismo col fumetto (che col graphic novel di ultima generazione mostra sempre di più le sue potenzialità artistiche) è quello in cui si accendono maggiori intermittenze, perché alla scrittura anche lì si sovrappone il codice visivo delle immagini, e poi, soprattutto, perché siamo sempre in un ambito industriale (legato a filo doppio alla pubblicità) che coinvolge più figure. Chi pensa la storia e scrive i dialoghi di un fumetto lavora in accordo con l’illustratore, allo stesso modo di uno sceneggiatore, sempre coordinato con il produttore, il regista e le altre figure che contribuiscono alla realizzazione del prodotto finito.

Si tratta dunque di una dimensione collettiva della creazione – solitamente anche la scrittura è a più mani – che quando si svolge in concerto e non in ostilità, di là dal rappresentare un limite per la fantasia, può al contrario svilupparne le potenzialità, magari in direzione dell’approfondimento. Come succede in molte serie low budget, che non hanno mezzi per realizzare scene d’azione notoriamente molto costose e puntano dunque alla valorizzazione del dialogo e dei rapporti tra i personaggi (come è il caso fortunato della serie israeliana In Treatment, poi adattata con lo stesso successo negli Stati Uniti).

È proprio sul low budget che è incentrato il corso, pensato per ridurre al minimo la propedeutica teorica, puntando decisamente a far apprendere la tecnica nella pratica, col confronto quotidiano direttamente nell’officina. Provando dunque a mettere gli allievi nelle condizioni di ideare e cominciare a scrivere una serie televisiva, a partire non dalle diavolerie produttive ma inducendoli a lavorare sulla potenza del dialogo, sull’efficacia narrativa delle trame e dei personaggi, perché imparino – provandolo a fare – a valorizzare fino all’ultima risorsa della drammaturgia della scena.

Un’iniziativa formativa specificamente orientata a incoraggiare chi – a centocinquanta anni dalla sua nascita – vorrebbe ancora raccontare questo paese e con ostinazione, provando a superare le tante barriere d‘ingresso di un ambiente competitivo più di altri, continua a produrre idee e immaginario – a dispetto della moda comoda e dilagante dell’adattamento di format stranieri che quasi mai ci rappresentano – anche per chi ha sempre meno soldi per andare al cinema o per comprare un libro, ma magari in casa può vedere la tv. Che è stata pur sempre, dati alla mano, il maggior strumento di diffusione su tutto il territorio nazionale (e a qualunque fascia sociale) anche della nostra lingua.

Francesca Serafini è la docente del laboratorio di scrittura seriale per la tv SERIAL WRITERS. Storica della lingua italiana, ha partecipato con ruoli diversi (story editor, sceneggiatrice, script editor, headwriter) a serie televisive di Rai e di Mediaset (La Squadra, Medicina Generale, L'ombra del destino ecc.). Da diversi anni alterna la scrittura creativa con l'attività didattica e di ricerca (occupandosi di linguistica, di cinema e di letteratura).

2 commenti:

  1. finalmente si parla seriamente di serie tv e di tv

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  2. Grazie del sostegno, Stefano.

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