mercoledì 23 novembre 2011

La tv è diversa

Storie seriali e storie cinematografiche

di Mattia Della Puppa

La mattina mi sveglio abbastanza tardi, o comunque con la sensazione che avrei certamente potuto farlo prima. Mi faccio un caffè e accendo la prima sigaretta della giornata, certo che sarà una delle poche che mi darà una qualche soddisfazione.
Poi comincio a guardare film. Tanti film, anche cinque o sei in un giorno. La maggior parte sono film brutti, alcuni talmente brutti da non riuscire a finire di vederli. Non studio al D. A. M. S., non sono disoccupato, non sono mantenuto dai miei genitori.
In effetti, questo è il mio lavoro. Di mestiere guardo film, per capire se possano essere distribuiti in Italia, per questo i film che guardo sono per la maggior parte brutti. Non è che lo sai prima, come sono, per questo tocca guardare tanti film che fanno schifo.

Mi rendo conto che la mia posizione possa apparire di privilegio e porti con sé una certa sensazione di snobismo. Però è esattamente così. Credo di poter affermare, con assoluta certezza, che tra tutti le categorie professionali del mondo della comunicazione siamo i più snob, supremi custodi dell'arte, guardiani della cultura "alta". In quanto a puzza sotto il naso ce la giochiamo solo con i pubblicitari: al momento vincono loro, ma abbiamo ampi margini di miglioramento. E comunque noi facciamo la cultura, loro sono dei commercianti. La televisione? Merda, nelle definizioni più generose. Cinefilia estrema. Questa è l'unica soluzione per una sopravvivenza culturale: capolavori introvabili di registi polacchi e uzbechi, altro che tv.

Poi succede qualcosa. In una delle numerose visite su Imdb, trovo una pagina: la votazione è altissima, 9.7/10. Non conosco il regista, attori famosi pochini. I casi sono due:
a) ho scoperto un capolavoro di cui l'Italia ignora l'esistenza (poco probabile, ma molto affascinante);
b) ho una gravissima lacuna che devo cercare di nascondere e poi, eventualmente, di colmare (più probabile, ma molto meno affascinante).
Opto per l'opzione B e cerco di documentarmi meglio: rapida ricerca su Google e mistero svelato.

Non è un film, è una serie televisiva, The Wire. Strano, soprattutto in virtù dell'assunto che determina il mio orizzonte culturale, cioè TV = sterco.
Decido di provare: la scarico (si può scrivere?) e inizio a guardarla.
Il primo risultato apprezzabile sono le occhiaie peste: cinque stagioni in trenta notti sono innanzitutto uno sforzo fisico. Per un mese arrivo al lavoro con la faccia di quello che la sera prima ha fatto qualcosa che, se raccontato ai carabinieri sarebbe reato o almeno consumo personale. Cerco di spiegare che sto guardando una serie ed è per quello che sto sveglio la notte e la mattina sono un cadavere. Non mi crede nessuno e al loro posto farei altrettanto.

Il fatto è che quella serie mi ha affascinato: è una macchina narrativa potentissima, molto più forte delle storie a cui sono abituato.
È strano, perché ho sempre creduto che la forza di una storia fosse riconducibile a un concetto vicino alla compattezza. Più una storia è solida, minore è la necessità di "tirarla in lungo" e di costruire intrecci complicatissimi, buoni, nella maggior parte dei casi, a far sentire gli spettatori più intelligenti di quello che in realtà sono. Gratificazione a basso costo o onanismo intellettuale.

Ad esempio Cast Away racconta la storia di un uomo che precipita su un isola deserta, fa amicizia con una palla e alla fine si salva. Due ore e dieci e tutti a casa. Lost racconta la storia di un gruppo di persone che precipitano su un isola deserta, fanno amicizia tra di loro e una palla (di grasso) alla fine li salva. Sei stagioni, cento quattordici episodi, circa ottanta ore.
Date le premesse: Cinema batte Tv due a zero.

Il fatto è che questo tarlo delle serie Tv continua a rodermi in testa, ma la sensazione è che sarebbe come cedere al lato oscuro, come i Jedi con i Sith.
Nel giro di qualche mese l'Imperatore ha completato la sua opera e mi ritrovo, di nuovo, dietro un banco a seguire lezioni di sceneggiatura seriale televisiva. Sono un apprendista Sith, Darth Tia, mi piacerebbe chiamarmi così.

La prima cosa che ho capito è che la sceneggiatura per la televisione è una guerra: al cinema è tutto diverso. Al cinema la gente paga per andare in sala e, al netto dei cellulari lasciati accesi, ci sono solo gli spettatori, il buio e le immagini. Per abbandonare lo spettacolo ci vuole un incendio o un film francese.

La tv è diversa, si entra in casa della gente, si fa a botte con i telefoni che suonano, con i bambini che piangono, con i piatti da lavare. E in più gli spettatori sono armati: hanno il telecomando e ti possono abbandonare con una pressione del dito indice.
Come si fa a conquistarli?

Una prima soluzione potrebbe essere l'abolizione dei telecomandi tramite decreto legge, ma pare sia una strada difficile da percorrere.
L'altra strada è spogliarsi del privilegio dell'esclusività, (ri)dare potere alle parole. Detto così sembra una bella frase, da scrivere sulla Smemoranda. Nei fatti è un casino. "Show, don't tell" dicevano i maestri americani. Il problema è che la credibilità dei dialoghi deve restare inalterata e senza ridondanze, ma la possibilità di fruire e comprendere il contenuto passa necessariamente attraverso la coscienza della battaglia che si combatte davanti al televisore mentre raccontiamo la nostra storia.
In poche parole non si può fare come nei film: parti dialogiche alternate a silenzi, giochi di sguardi, allusioni. O come nei film francesi: lunghissimi silenzi, interminabili giochi di sguardi, incomprensibili allusioni.
La difficoltà sta nel trovare la misura tra un approccio dialogico credibile e la necessità di mantenere costante il livello di comprensione dello spettatore.

Dal punto di vista strutturale le storie "seriali" e "cinematografiche" sono molto simili, ma incredibilmente diverse.
La struttura è simile, ma è radicalmente diverso lo sviluppo sui personaggi. Se nelle storie "cinematografiche" il nostro obiettivo è portare ad emergere i nostri protagonisti, nelle narrazioni seriali l'obiettivo è piuttosto quello di scavare nelle loro storie, sempre più profondamente. Questo lavoro "verso il basso" diventa, esso stesso, generatore di contenuti e di narrazione, il motore immobile del racconto seriale.

La compattezza di una storia è e resta, dal mio punto di vista, l'elemento principale e fondante di una narrazione efficace, ma la serialità, se interpretata e pensata come strutturale, non è diluizione di un contenuto esistente. È incastro di storie solide, macchina da generazione di contenuti che nascono dal profondo dei personaggi.

Ogni Maledetta Domenica racconta la storia di un quarterback sfigato che diventa il migliore grazie al suo allenatore. Friday Night Lights racconta, tra le altre, la storia di un quarterback sfigato che diventa migliore (non "il migliore") grazie (anche) al suo allenatore.

Non credo, quindi, che il problema sia la qualità della proposta. Il cinema e le serie richiedono tecniche di narrazione diverse, ma hanno entrambi uguale dignità, non si può fare un paragone. È come paragonare i cento metri e la maratona, non è lo stesso fottuto campo di gioco, non è lo stesso campionato e non è neppure lo stesso sport.

Queste sono le riflessioni principali legate alla mia esperienza da Serial Writer.

A tale proposito trascrivo i pensieri del bambino Mattia, tornato felice a scuola dopo circa otto anni di latitanza.
Sono molto contento di andare a scuola al corso serial writers, Le maestre Francesca e Claudia sono molto brave e ci insegnano un sacco di cose interessanti. Anche i miei compagni di scuola sono tutti simpatici e ogni tanto ridiamo anche mentre le maestre stanno spiegando le cose e loro ci riprendono e fanno bene. Lo so che non dovrei farlo, che la mamma si arrabbia se non sto attento a scuola, ma non ce la faccio perché sono tutti simpatici e bravi. Non è che ridiamo sempre, impariamo anche tante cose e poi ogni tanto arrivano dei signori che ci dicono delle cose difficili da capire e che mi fanno anche venire il mal di testa

L'altro giorno è arrivato anche un signore senza capelli che parlava in inglese e con lui c'era un altro signore senza capelli che ci diceva in italiano quello che l'altro signore senza capelli ci diceva in inglese. Il signore che parla in inglese scrive delle storie con dei ragazzi che fanno delle brutte cose: tipo che prendono la droga, si ubriacano e dicono un sacco di parolacce. Io non so come siano i ragazzi Inglesi, ma spero che non siano tutti così. Per fortuna che in Italia i ragazzi non sono così e in televisione non vediamo tutti questi comportamenti sbagliati.

PARAFRASI: Il corso è stato molto stimolante e gli interventi degli ospiti lo sono stati altrettanto. Overman è un genio e il fatto che non viva in Italia è una fortuna per il genere umano.

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