giovedì 31 ottobre 2013

Le interviste sui libri nascosti #2


Seconda puntata delle nostre interviste sui libri nascosti. Questa volta Giorgio Vasta ci racconta un romanzo, e anche un po' il mondo. Come al solito, vi sfidiamo a scoprire l'autore e il titolo del libro e a mandare le vostre soluzioni nei commenti, oppure su twitter (#librinascosti) o su facebook. Buona lettura!


Tu non vuoi stare lì dentro

Un'intervista di Ondina Chirizzi e Assunta Martinese a Giorgio Vasta.


Innanzitutto, sappiamo che ci si aspetta da noi questa domanda, quindi: come mai hai scelto proprio questo libro?

Perché penso che la discussione che lo ha accompagnato quando è uscito, nel 2010, sia stata ingiustamente molto ridotta rispetto a quello che un libro di questo genere merita.  Lo trovo molto interessante, credo che abbia una straordinaria qualità di lingua e di sguardo e quindi, se esiste l'occasione per tornare a parlarne, la si coglie.


Nel libro. le due figure principali sono un padre e un figlio che agiscono rispetto al prossimo in maniera speculare. Il padre ha rinunciato in origine a qualsiasi desiderio di piacere e sente invece il dovere di educare e istruire chiunque gli stia intorno (e l'Italia intera). Per contrasto il figlio avverte come unico dovere quello di essere amato per mezzo delle risate che suscita...

Mi viene in mente una canzone di Giorgio Gaber, la cui prima parte si intitolava I padri miei e la seconda I padri tuoi.  Entrambe le parti sono segnate da una certa acredine, ma c'è una maggiore disponibilità nei confronti dei primi, i padri della generazione di Gaber. Quelli che hanno dalla loro una sobrietà, una dignità, o addirittura quella gravitas latina che li rende quasi figure di di antiquariato antropologico perché la costellazione di principi a cui si ispirano e fanno riferimento sembra non avere più a che fare con nulla. I padri tuoi, invece, sono i padri giovani degli anni '70, che cercano o meglio implorano l'amicizia dei figli e che sostanzialmente falliscono in pieno nel loro ruolo.
In questo romanzo l’autore recupera queste categorie, queste macrofigure, raccontandone però la storia e il legame all'ombra di un ombrello potentissimo che è il codice televisivo e tutto quello che l'immaginario televisivo ha determinato in Italia dall'inizio.
La cosa molto bella è che questo libro è quasi un manuale di storia della televisione disciolto in forma narrativa.


Più avanti nel libro, quando il figlio si ripropone come padre nei confronti della terza generazione, diventa chiaro che nemmeno l’approccio amichevole, basato sulla complicità,  determina una relazione felice, tutt’altro...

Se questa fosse una catena, l'anello critico sarebbe quello centrale. Tutto sommato il padre del narratore protagonista nonché il figlio di quest’ultimo hanno caratteristiche e posizioni tradizionali. Il nipote non è una continuazione fisiologica del figlio. Tende, anzi, ad assomigliare più al nonno.
L'elemento critico, quello che non trasmette, che si dimette dal proprio ruolo, è il protagonista, il narratore, e questa cosa secondo me è interessantissima.
La voce di questo narratore, raffinatissima, iperconsapevole, ha come elemento connotativo quello che secondo me fa la grandezza di questo romanzo: un qualcosa di stridulo, di tremulo. Il narratore non riesce mai a tenere il tono. Inteso non come limite del romanzo ma come suo punto di forza. È profondamente disperato, come se fosse il versante ridicolo del tragico.
La disperazione del figlio che vuole piacere a tutti a partire da un fatto casuale da bambino, è la tentazione di ognuno di noi nel momento in cui lasciamo indietro l'essere umano a vantaggio dell'essere televisivo.

Sempre riguardo alla lingua, il romanzo si muove secondo noi su tre linee, su tre piani linguistici molto diversi. C'è questa sorta di lingua originale che è il dialetto, dove ancora i nomi sono la cosa che nominano; c'è il piano che usa il figlio, che è quello della battutaccia facile e che è totalmente avulso da qualsiasi realtà, e c'è la lingua della narrazione, dove l’enfasi crea un effetto straniante, uno scollamento rispetto alla materia del racconto che genera un fortissimo disagio...

All'interno di questo romanzo il dialetto, senza venire messo sul piedistallo, riconosciuto per quelle che sono le sue caratteristiche, rappresenta un po’ l'origine e il punto di maggiore consistenza di una dignità che nel corso del tempo si va disperdendo.

Sembra anche che sia la lingua in cui si dice solo il necessario.

Certo. È come se fosse immanente, come se avesse una referenzialità nitida, riconoscibile, condivisibile. Ci due cose che mi colpiscono di questa storia.  Da un lato come viene presentata la figura di Silvio Berlusconi, ossia come l'editor, il riformatore, il riformulatore di un'intera esperienza linguistica, e dall'altro lato lo scollamento di cui parlavamo prima: siamo di fronte a una lingua enfatica che tratta un materiale ridicolo. Nell'interstizio, che alcune volte in realtà è un pallone, uno spazio enorme, tra la confezione epica della descrizione e il ridicolo dell'oggetto che si descrive risiede il cambiamento dei tempi.

Torniamo al desiderio di piacere del figlio, e alla scoperta casuale del modo di soddisfarlo. A un certo punto il gioco gli sfugge di mano, con un esito tragico. C’è un parallelismo con quello che nel Tempo Materiale succede a Morana?

Il collegamento c'è, nel senso che in entrambi i casi c'è la scoperta del fatto che la crudeltà e la curiosità nei confronti del male ci appartengono e non sono il limite, la caratteristica negativa del cattivo: appartengono agli esseri umani.
La differenza sta però nel fatto che nel caso di Il tempo materiale tutto quello che riguarda Morana svolge una funzione pedagogica, fa parte di un addestramento. A Morana viene negato qualunque livello di esistenza creaturale, biografica, storica. Il ragazzino di questo romanzo è invece molto più ‘personaggio’, nel senso che ha un livello di esistenza tale per cui ci si può, se anche non fino in fondo, rammaricare per il fatto di avere in qualche modo contribuito a determinare la sua tragedia.

In realtà lui si riprende abbastanza in fretta. Quando viene a sapere della tragedia del compagno, subisce uno shock e cade dal palco sul quale si stava esibendo e si ferisce gravemente a un ginocchio. Ma continua a ripetere “L'ho fatto apposta, ridete! Perché non ridete?”

Il non volere stabilire la connessione è sintomatico di un atteggiamento che riguarda gli anni ’80 e la cultura nella quale questo personaggio vive immerso.
Non è che scompaiono determinate esperienze, non scompare il male, non scompare il dolore, non scompare la morte, però è come se si volesse liquidare la consapevolezza delle estreme conseguenze. Tutto quello che accade, accade fino a un certo punto. È una specie di amnesia insieme individuale e collettiva.

È come se non avessimo più nemmeno bisogno di scuse o giustificazioni ideologiche. Sembra che la crudeltà, che negli anni Settanta aveva avuto bisogno di legittimazioni ideologiche, giuste o sbagliate, da un certo momento in poi abbia cominciato a esistere di per sé...

Quello che è interessante è che sparisce un'esperienza, sparisce un comportamento che ancora fino a un ceto punto era stato significativo, così significativo da diventare centrale all'interno di molte narrazioni. Sparisce tutta quella che è la fisiologia del pentimento.
Del resto, pentirsi significa riconoscere i torti commessi e assumersene la responsabilità; espellere il pentimento significa non raggiungere mai quella fase, continuare a pensare che tutto sia preterintenzionale, che accada al di là delle proprie azioni.

Un’ultima domanda. Ne Il tempo materiale tu ti scagli molto decisamente contro l’ironia, già all’inizio del romanzo, credo addirittura nel primo capitolo. Cosa ti ha fatto apprezzare un libro che invece è completamente costruito sull'ironia, sulle parole che non significano quello che dovrebbero significare?

Intanto va fatta valere una distinzione: da parte mia non c'è una preclusione o un’insofferenza nei confronti dell'ironico come mondo, come registro, come stile. Quello che mi interessa è quello a cui l’ironico può servire e l'impressione che ho è che molte volte esso sia come la ruota del criceto: gira su se stesso ed è funzionale a quel non produrre conseguenze di cui si diceva prima.
Se l’ironia riesce ad essere un dispositivo che svela, che rivela, penso che essa sia straordinariamente utile. Nel libro in questione l'ironia è un'ironia che, coerentemente con la voce che veniva descritta prima, tremula, persino stridula in alcuni momenti, non è gradevole. Il personaggio che narra questa storia non è un personaggio al quale noi possiamo volere profondamente bene. Abbiamo nei suoi confronti un senso di pena, nella migliore delle ipotesi di compassione, e ci rendiamo conto che chi racconta la storia (mi riferisco all’autore, non al narratore) sta facendo un uso strategico dell'ironia, ne sta reclutando il versante sgradevole.
Questa ironia è tutto tranne che auto-assolutoria, rassicurante, confortevole. Tu non vuoi stare lì dentro.

Proviamo più simpatia nei confronti del padre, della sua sobrietà, che nei confronti di questo figlio, costretto in una specie di rictus, quel mezzo sorriso che è la mimica facciale standard che la maggior parte del discorso televisivo è in grado di produrre in noi. È come se venissimo scolpiti, come se venissimo pietrificati in quella forma.
Questo personaggio può esistere al meglio delle sue aspettative, può costruire un Eden, solo nel momento in cui a questo rictus corrisponde un rictus omologo, analogo, in tutti quelli che gli sono di fronte. Però questo (indica la copertina del libro) è il telespettatore e dietro il telespettatore, alcune volte molto indietro, fino all'oblio, ci sarebbe ancora quello che per tanto tempo e ancora adesso chiamiamo essere umano. In realtà siamo già da un'altra parte.

Va bene. grazie :) (convenevoli)



Nessun commento:

Posta un commento