Un reportage di Costanza Galanti apparso su un numero speciale
curato da Sbilanciamoci per il Manifesto.
Costanza Galanti ha partecipato alle prime due edizioni del laboratorio di Literary Non Fiction, a cura di Christian Raimo e Cristiano de Majo.
Il laboratorio sta per ripartire, a Roma, nella speranza di continuare a leggere cose così interessanti.
Sono le quattro di notte nell’ex
base Nato al limitare della faggeta di Allumiere sui monti della Tolfa, e nella
sala attrezzata per il proiettore siamo seduti su comode poltroncine con le Red
Bull, una teiera e dei biscotti. Vicino a noi il nostro graphic designer al
computer cura gli ultimi dettagli della presentazione che domani proietteremo
davanti ad una giuria di esperti di startup e finanziatori. Le immagini
accompagneranno il discorso del mio compagno di team che si cimenterà in quello
che viene chiamato il «pitch»: un discorso di quattro o sette minuti che mira
ad attirare l’attenzione degli investitori sul tuo prodotto. In particolare,
nel caso delle startup, imprese nuove che introducono una soluzione di forte
originalità e che quindi a fronte di un alto rischio di fallimento hanno le
potenzialità di crescere vertiginosamente, l’attenzione degli investitori è
concentrata sulla «scalabilità del modello di business» – appunto, la
prospettiva di una crescita che permetta dopo una manciata d’anni di vendere le
azioni con ampi margini di guadagno.
«Ma come, non hai mai visto il pitch di
Steve Jobs per il primo iPhone?!». Le ore della notte si sfilacciano, e dentro
le smagliature crescono le visualizzazioni dei video su YouTube. E siccome
siamo ad un campo pensato per promuovere la cultura imprenditoriale tra i
giovani, un campo dove Apple e Facebook vengono nominati più di quanto Dio
venga invocato nei ritiri di un gruppo parrocchiale, i video di Steve Jobs sono
il genere di video che si riguarda insieme – o, nel mio caso, si vede per la
prima volta. «A widescreen iPod with touch controls, a revolutionary mobile
phone, a breakthrough Internet communication device», dice Jobs presentando
l’iPhone al mondo, e poi ripete questa descrizione tre volte, che si moltiplicano
come un’eco nella nostra stanza dai soffitti alti con travi di legno, perché
gli altri ragazzi lo sanno a memoria, e lo ripetono anche loro.
Prigionieri del
successo Il pubblico di Jobs applaude e fischia per l’entusiasmo. «Non siete in
imbarazzo per loro? Non vi sembra umiliante strillare davanti a qualcuno che vi
vuole vendere un prodotto?», chiedo io. No, macché. Forse non ho capito la
portata rivoluzionaria di quello che sta succedendo su quel palco, insistono.
Che
io non capisca molte delle cose che ho intorno è ormai, dopo quattro giorni di
campo, piuttosto chiaro anche a me: ho un Mac e un iPhone e non ho mai preso
sul serio la leggenda del cui fascino subisco l’onda lunga; rabbrividisco al
racconto dei loro genitori che strisciano il codice a barre di ogni singolo
detersivo e vasetto di yogurt estratti dalla busta della spesa con lo
smartphone, in un baratto di informazioni sulla propria dispensa in cambio di
premi, ma lascio i miei dati leggera ad ogni connessione wifi gratis mi capiti di
incontrare. In questo senso, sono forse la più sprovveduta dei venti fra
ragazze e ragazzi, dai diciannove ai trentuno anni, selezionati per partecipare
all’InnovAction Camp, la cui formula prevede un’alternanza di lezioni frontali
su economia, innovazione e mercato delle startup ed intenso lavoro di gruppo.
Il campo, della durata di cinque giorni, è organizzato da InnovAction Lab,
associazione non profit che si propone di mettere in contatto gli studenti con
il mondo degli investimenti privati, e si svolge in una struttura
dell’università Roma Tre; tutto è finanziato, con tanto di vitto e alloggio,
dai supporter JP Morgan Chase Foundation, Microsoft e Fondazione Cariplo
insieme con il programma «Startup Revolutionary Road», e World Wide Rome. Dal
campo e della sua versione lunga, il laboratorio di tre mesi, sono uscite, a
partire dalla fondazione nel 2011, trentaquattro startup, che hanno ricevuto in
totale circa quattro milioni di euro di investimenti privati.
Le istruzioni che
abbiamo ricevuto per la formazione dei gruppi che lavoreranno ognuno su un’idea
di startup recitano: almeno una ragazza, almeno un ingegnere informatico, non
più di due economisti, per un totale di quattro membri. La sera del primo
giorno, dopo un pomeriggio di esercizi preparatori al rugby propedeutici al
team building , uno di noi ha collegato il proprio computer al proiettore e in
un file Excel ha inserito le nostre competenze che a turno gli dettavamo. Sul
muro comparivano man mano «web design», «programmazione», «quantitative analysis»,
«social media marketing», «marketing», «stock research analysis», «grafica»,
«management». Alcuni hanno aggiunto: «Ho una passione per il food», «Sono
appassionato di wine».
Io ho ventun anni, studio antropologia culturale e
quando arriva il mio turno fingo sicurezza e dico: «Skill 1: metti… “metodo
etnografico», mentre per lo skill 2: metti “scrittura”». Fra i ragazzi c’è chi
si deve ancora laureare, c’è chi era arrivato a guadagnare seimila euro al mese
gestendo le puntate dei giocatori di poker online, prima che il portale Venice
Poker fallisse, e c’è chi ha già la propria startup e conosce bene l’ecosistema
italiano a queste collegato. Fra questi ultimi, due ragazzi che si sono appena
conosciuti e insieme hanno già partorito un’idea che ci propongono: creare una
piattaforma dove trovare graphic designer che migliorino la veste grafica e
l’organizzazione delle tue slide.
A cena avevo parlato con una ragazza che
stava sviluppando una piattaforma dove geolocalizzare dal proprio smartphone
tutto ciò che avrebbe interessato chi ricercava un’alta qualità della vita –
cibo a chilometro zero, spazi di coworking, affitto di biciclette, luoghi dove
fare sport. Le avevo proposto di metterci nello stesso gruppo e sviluppare, per
i giorni del Camp, squisitamente a scopo di esercitazione, una sorta di
appendice al suo progetto: qualcosa che avesse a che fare con i quartieri e
meno con il turismo – una sorta di guida a uso interno degli abitanti per i
luoghi di interesse, simbolici, della microstoria della zona; oppure un sistema
per collegare virtualmente le librerie indipendenti, in un catalogo disponibile
su un’app, comprensivo di riviste letterarie straniere, troppo costose da
ordinare singolarmente dall’Italia. Le avevo parlato di «Lìberos» –
l’organizzazione che in Sardegna ha messo in rete case editrici, librerie
indipendenti, biblioteche, scrittrici e scrittori – e di «Port Review»,
l’edicola online di riviste digitali. Riflettevo anche che rendere tecnologici
gli scambi di un quartiere non li rende necessariamente migliori, che in molti
casi, senza adeguate discussioni e momenti di autorganizzazione e riflessione,
i servizi di messa in rete dei vicini finiscono per diventare casse di
risonanza per le vecchissime recriminazioni: avevo letto per esempio di persone
senza fissa dimora prese di mira tramite sofisticati algoritmi di vicinato 2.0.
La ragazza era stata molto gentile, ed io piuttosto insistente, ma era ovvio
che ciò che le proponevo non le interessava: «io non faccio questa cosa
ideologicamente », si era affrettata a puntualizzare. Aveva anche avuto
l’eleganza di non farmi notare che nei miei progetti velleitari non c’era
sicuramente l’ombra di un business plan scalabile.
* * *
Avevo pensato allora
che confondere cose che sentivo vicine con modelli di business che sentivo
lontani mi avrebbe creato confusione – che sarebbe stato più chiaro a questo
punto lavorare sulla piattaforma per ritoccare le slide proposta dai due
ragazzi, piuttosto che finire per progettare a tavolino una gentrificazione.
Sono
tre giorni e mezzo quindi che io, Filippo, Francesco e Massimo lavoriamo sul
progetto della startup delle slide, e prepariamo il pitch secondo lo «schema
standard» che ci viene illustrato con una lezione apposita.
Filippo, che lavora
con le stampanti 3D, ha studiato grafica al politecnico di Torino, e ci mette
in contatto con altri grafici per capire le tariffe alle quali sarebbero
disposti a lavorare. Massimo e Francesco cercano i potenziali competitori, per
esempio siti che disegnano i loghi per le aziende, e li studiano per farsi
un’idea del modello di business di ciascuno di loro. Poi considerano le opzioni
per il nostro modello, discutono sull’entità dell’investimento iniziale di cui
avremmo bisogno e buttano giù una tabella stimando i tempi di lavoro da qui a
un anno. Cercano di coinvolgermi in tutto questo, ma hanno troppa esperienza
perché io possa dare un contributo significativo.
Massimo, infatti, sta per
lanciare un portale sui cui sarà possibile recarsi per comprare online oggetti
per le ong; la sua startup, che ha progettato il portale, guadagnerebbe
prendendo una percentuale sugli acquisti agli store online ai quali
reindirizza. Ha frequentato un master presso HFarm, un acceleratore di startup
a Roncade in provincia di Treviso, grazie al quale è entrato in contatto con
persone importanti per lo sviluppo della sua idea come il cofondatore di Banca
Etica. Francesco invece è di Catania, dove Telecom ha una delle sedi di
«Working Capital», il programma di accelerazione di startup di Telecom Italia
che mette a disposizione dei ragazzi una rete di esperti e degli spazi fisici
accoglienti e tecnologici dove lavorare in gruppo alle proprie idee. È qui che
Francesco ha conosciuto i ragazzi con cui ha fondato «Ganiza», l’app che
gestisce il sistema di votazioni con cui i gruppi di amici numerosi scelgono
l’attività con cui trascorrere la serata (la startup guadagna chiedendo una fee
a ristoranti e locali ogniqualvolta questi vengano presi in considerazione
durante la votazione). Quando è arrivato il primo finanziamento di
venticinquemila euro aveva da poco deciso, contro il parere dei suoi genitori,
di rinunciare al master in Business in Svizzera per il quale aveva passato le
selezioni.
Tornando alla piattaforma delle slide, dunque, io mi limito a dire
che se fossi un cliente mi piacerebbe vedere bene chi è il designer a cui
affido il lavoro, che mi piacerebbe vederne il nome e il sito internet, e
magari anche i suoi social network. Ma questa opzione, mi fanno notare i
compagni, farebbe sorgere numerose controindicazioni, tra cui l’aumento del
rischio di «cheating», cioè che cliente e grafico si incontrino al di fuori
della piattaforma, sottraendosi così dalla fee del 10% che tratteniamo sul
pagamento del grafico. Si decide quindi di optare per il meccanismo del «contest»:
il cliente carica le sue slide, i grafici che vogliono candidarsi per il lavoro
ne modificheranno una, e da queste prove il cliente potrà scegliere a chi
affidare e quindi retribuire il lavoro completo.
* * *
Allora, siccome ho detto
loro che scrivo, pensano che almeno io sia brava a scegliere il nome
dell’impresa: mi applico un po’, ma mi escono solo giochi di parole un po’
indiretti e qualcun altro esce fuori con il nome definitivo: «ReSlide.it».
Infine, stabiliamo che sarà Massimo a parlare durante il pitch.
Steve Jobs
riusciva a non sembrare ridicolo durante i suoi pitch: aveva trasferito
l’umiliazione di chi ha bisogno sul suo pubblico di consumatori desideranti. I
nostri pitch però trattengono ancora l’umiliazione su noi che vendiamo – anzi,
più propriamente, che ci vendiamo , presentandoci come un team su cui vale la
pena investire. Infatti, nei pitch cosiddetti «di investimento», a differenza
di quanto accade nei pitch di vendita in cui ci si concentra sul prodotto da
acquistare, a guadagnarsi la fiducia deve essere prima di tutto il team. Come
esempio ci vengono citati a lezione dei ragazzi che poco tempo fa hanno
progettato un social network per camionisti. A nessuno importa di investire sui
social network dei camionisti, ma i ragazzi sono stati contattati dalla Sony,
interessata alla tecnologia che avevano sviluppato per usare i social network
senza toccare il telefono mentre si sta guidando.
Durante il campo tutti e
cinque i team ripetono il loro pitch due volte per ricevere i feedback degli
altri ragazzi ma soprattutto degli organizzatori, e poi una terza volta,
l’ultimo giorno, davanti ad esperti invitati da fuori, alcuni dei quali
possibili investitori.
Ecco come si apre il nostro pitch: «ReSlide.it è la
prima piattaforma di crowdsourcing che mette in contatto i designer con chi ha
la necessità di rendere le proprie presentazione memorabili. Ogni giorno liberi
professionisti e aziende usano presentazioni per vendere i propri prodotti e le
proprie idee, o in momenti cruciali per l’organizzazione interna dei propri
dipendenti. Ci riescono? Microsoft stima che il 90% delle presentazioni annoia
la sua audience… Qua entriamo in gioco noi: Reslide.it è la piattaforma web che
in 72 ore e 129 euro riorganizza testi e immagini delle tue slide – i tuoi
contenuti, finalmente veicolati con l’incisività e l’efficacia che meritano».
Ecco gli altri team: uno vuole «cancellare la paura di tutti i bambini»
vendendo agli ospedali degli astucci che coprano con dei disegni le siringhe
dei vaccini; un altro ha capito che «si può vendere il cielo» e ha progettato
un portale per il turismo astronomico; «ti sarà capitato di essere un turista
insoddisfatto!» intima un altro ancora, che vuole sviluppare un’app per farti
vivere le mete delle tue vacanze «come uno del luogo»; «tutti possono essere
social media reporter!» gioisce infine il team che offre a pagamento copertura
sui social media a certi eventi.
Le prime domande che ci si rivolge per
incominciare a dare i feedback dopo ciascun pitch sono: «Qualcuno non ha capito
cosa stanno facendo?», «Chi ci investirebbe?». A volte si alzano le mani. Poi
altre mani alzate per chi vuole chiedere la parola e dare suggerimenti al team,
al quale invece è imposta la regola di non poter rispondere alle critiche, di
dover solo ascoltare e prendere appunti.
Carla, fra noi ragazzi, è quella che
muove le critiche più puntuali: sembra allo stesso tempo un’editor e una
regista che parla con i suoi attori. A noi dice cose come: «nella presentazione
avrei voluto vederti più freddo, distaccato», «come fai a inglobare i designer
nella piattaforma? Questa è una cosa che avrei voluto sentirti dire» e «secondo
me il tempo è un driver sufficiente, mentre la voce “qualità delle slide” non
mi piace». Le faccio i complimenti, e lei mi risponde che le piacerebbe
ricevere feedback con lo stesso rigore che mette lei a formularli. Rimango
zitta.
* * *
I feedback degli organizzatori vogliono essere spietati,
comunicati con degli interventi in cui la volgarità viene percepita da tutti
come franchezza. I ragazzi in realtà ne sono esaltati e finiscono per cercare
feedback sempre più duri: vogliono veramente capire come fare, nutrono fiducia
negli organizzatori e riconoscono loro più autorità di quanta io abbia mai
visto riconoscere ad uno dei miei professori all’università.
Immaginiamo un
continuum dei discorsi in pubblico: ad un estremo i pitch, totalmente rivolti
verso l’ascoltatore – chiari, omogenei, semplificati, pensati per non farti
pensare, ogni minuto che ha alle spalle un’ora di preparazione – e dall’altro
le lezioni dei miei professori di Lettere e Filosofia – in ritardo senza
fornire scuse, con lezioni spesso improvvisate e sbrodolate, con interi
segmenti uguali, cristallizzati in automatismi da una lezione all’altra, ma a
volte complesse, come un regalo bellissimo ma molto difficile da scartare.
Quasi in mezzo, ma più dalla parte dei pitch, possiamo collocare i seminari che
seguiamo qui al campo.
Le lezioni sono una dimostrazione di fiducia illimitata
nei procedimenti induttivi: ci vengono presentati continuamente degli esempi, e
«Noi non vi diamo soluzioni, vi diamo problemi da risolvere», è uno degli
slogan più ripetuti. Poi, liste di sette elementi «perché è stato calcolato
come il massimo di elementi che il nostro cervello riesce a ricordare in un
elenco». Infine, apertura incredibile sulla propria esperienza: «Allora: io ho
fatto startup di successo. I nostri investitori hanno fatto una caterva di
soldi che voi ve li sognate», ma subito: «abbiamo anche fallito, bruciato soldi
degli investitori».
Il designer del mio team rimane affascinato in particolare
da due storie, che tirerà fuori spesso mentre lavoriamo o parliamo del più e
del meno per spronarci ad essere ambiziosi e creativi. Una è una sorta di
parabola dei talenti ambientata a Stanford: una professoressa dà a ciascun
gruppo cinque dollari, chiedendo di farli fruttare il più possibile. C’è chi
compra una pompa per le bici, offre controlli gratis e poi fa pagare un dollaro
il servizio a chi si scopre avere le ruote sgonfie; così raccolgono velocemente
cinquanta dollari, finché stabiliscono che la donazione sarà libera, e allora
quadruplicano i ricavi e ne fanno duecento. Poi, c’è a chi viene in mente di
vendere il quarto d’ora che spetterebbe al proprio gruppo per parlare davanti
alla classe ad un’azienda: ne trova una disposta a pagare seicentocinquanta
dollari per quindici minuti con degli studenti di Stanford.
La seconda storia è
un mito di fondazione dell’ormai celebre «Airbnb», portale per l’affitto di
case vacanza. I ragazzi della startup, ai primi passi, non riescono a trovare
investitori disposti a conceder loro fiducia. Decidono allora di comprare
pacchi di cereali, su cui stampano le facce di Obama e di McCain; siamo in
campagna elettorale, e fuori dai comizi riescono a vendere queste scatole a
cinquecento dollari, garantendo agli acquirenti che ne avrebbero devoluto la
metà al candidato. «Non sappiamo con certezza come andrà la nostra startup, ma
sappiamo vendere una scatola di cereali a cinquecento dollari», sembra abbiano
detto poi ai loro investitori: non potevano dimostrare che il prodotto avrebbe
funzionato, ma erano riusciti a dimostrare che loro erano le persone giuste.
I
docenti sono sempre a disposizione, anche alle tre di notte. Rispondono
gentilmente anche a me, che di solito esprimo perplessità. Ma se in risposta ai
miei dubbi mi chiedono di sfilarmi gli occhiali, e avendo letto «Bulgari» mi
raccontano l’edificante storia di Del Vecchio, da orfano a secondo uomo più
ricco d’Italia, è solo perché ormai son capitata loro davanti al tavolo della
cena; non sono poi particolarmente attaccati alla favola della meritocrazia,
che come qualsiasi narrazione legata a dei valori non viene mai affrontata
esplicitamente e sistematicamente in questi giorni.
* * *
L’ultima notte,
quella in cui abbiamo visto il video di Steve Jobs, andiamo a dormire alle
cinque e ci diamo appuntamento alle nove. Il ragazzo che deve fare il discorso
del nostro pitch si sveglia tardi, ci raggiunge e incomincia a provare
nervosamente il discorso. Ha fame e gli porto un piatto di biscotti che tengo
con la mano perché lui possa pescarne mentre ripete. Intanto gli altri due
membri del team lo ascoltano e lo correggono, ma a lui continuano a sfuggire le
parole. Lascio il piatto e vado a raccogliere dei denti di leone, che lego
insieme con un filo di paglia. Infilo il mazzetto nel taschino della camicia
Ralph Lauren del ragazzo che all’ultimo sostituirà quello designato per fare il
pitch; lui però lo tira fuori subito perplesso, e io me lo riprendo.
Le mie
parole per loro non sono efficaci, non suonano precise, solo ridondanti e
pretenziose: «ok, ma ora non dobbiamo scrivere un libro», mi dicono quando
propongo delle modifiche. E se non hanno effetto, non serve a niente che io le
abbia scelte con cura, che a me suonino perfette. Vige un altro codice qui, il
mio non vale, e d’un tratto mi prende una nostalgia fortissima, che non so se è
nostalgia come quella che mi è presa in questi giorni di sentire musica dal
vivo, o è solo nostalgia del potere che esercitavo su persone e cose quando le
nominavo e queste mi rispondevano.
Nessun commento:
Posta un commento