lunedì 28 febbraio 2011

Come i Sex Pistols senza Vivienne Westwood

Considerazioni a margine di un workshop di editing

di Gianluca Didino




Domenica 24 ottobre 2010 ho avuto il privilegio di assistere alla parte conclusiva del workshop di editing tenuto da Nicola Lagioia nella sede di minimum fax a Roma. Tralascio qui di approfondire le mie impressioni personali e dico soltanto che per me è stato davvero bello, utile, interessante e formativo, tanto la prima parte in cui ero chiamato in veste di “autore” (virgolette d’obbligo, eh) quanto la seconda a cui ho assistito da spettatore. Nel pomeriggio si è parlato di riscritture e editing lavorando su due racconti di Valeria Parrella e su uno di Raymond Carver nelle due versioni di “What we talk about when we talk about love” (editato) e “Beginners” (non editato). A margine di quanto detto durante il workshop mi sento di fare alcune osservazioni sull’annosa questione Gordon Lish sì / Gordon Lish no, chiedendo scusa in anticipo a tutti coloro che quando sentono parlare per l’ennesima volta dell’editing dei racconti di Carver sono presi da incontrollabili tic nervosi all’occhio destro.

Primo. Per quanto sia un argomento perfetto per un corso di editing, mi pare evidente che la questione Carver vs. Lish non ha niente a che spartire con la critica letteraria, e mi pare altrettanto evidente che proprio su questo punto nel dibattito ad essa relativo regni sovrana la confusione: il momento della produzione culturale e quello della ricezione della cultura sono cose differenti, in continua e costante interazione ma non assimilabili, e questo da qualunque punto di vista si guardi al problema. Quello che voglio dire è che chiedersi cosa sarebbe stato Carver senza Lish è come chiedersi cosa sarebbero stati i Sex Pistols senza Vivienne Westwood: è una domanda utile? Certamente sì se ciò che ci interessa sono i meccanismi produttivi dell’industria culturale, probabilmente no se ci stiamo occupando di Carver, del peso di Carver nella narrativa contemporanea, dell’eredità di Carver eccetera. Che differenza potrebbe fare, infatti, da questa seconda prospettiva, sapere che il Carver che ci è arrivato, quello che leggiamo, amiamo e a volte anche imitiamo è diverso dal Carver che tutto solo, a metà degli anni Settanta in una casa precaria nel profondo degli Stati Uniti, scarabocchiava i suoi racconti su un bloc notes da pochi cent? Personalmente mi pare che questa domanda possa interessare solo due categorie di persone: coloro che amano giocare al gioco dei mondi possibili, come gli scrittori di sci-fi o gli sperimentatori dell’OULIPO; e a coloro che, per via di qualche nodo psicologico irrisolto, sono ossessionati come i nazisti dall’idea della ricerca della purezza (letteraria, autoriale, umana), a quei moderni luddisti, cioè, che hanno smesso di amare il mondo dai tempi della seconda rivoluzione industriale e di Walter Benjamin. Insomma: da un punto di vista critico parcellizzare l’opera carveriana dividendo “il vero Carver” dal “Carver umiliato e offeso” dalla mano pesante del suo cattivo (ma geniale; ma indubbiamente cattivo e insensibile) editor mi pare rischioso, e, peggio ancora, inutile. Con il risultato che la critica ha perso così tanto tempo a cercare di capire chi fosse “il vero Carver” che gli studi sull’opera di Carver, quella reale e concretamente fruibile, sono oggi, almeno nel nostro Paese, a uno stadio ancora molto arretrato.

Secondo. Tutta questa querelle che appare interminabile, più eterna e fosca dei plastici di Bruno Vespa sul delitto di Cogne, ha portato appunto al risultato che ci si è concentrati pochissimo sull’opera carveriana in sé e sulla sua evoluzione storica. Dirlo oggi può apparire come una bestemmia, ma credo che a fare la differenza tra il Carver di “What we talk about” (1981) e quello di “Cathedral” (1983) non sia stato tanto il progressivo venir meno della furia potatrice di Gordon Lish quanto piuttosto una naturale evoluzione della poetica carveriana. C’è gente che a sentir parlare di “poetica” nel 2011, negli anni del trionfo della tecnica, rabbrividisce; ma con buona pace di tutti i tecnocrati uno scrittore è prima di tutto un uomo, e ogni uomo nel corso della vita cambia idee, posizioni sul mondo, sensibilità. Lo stesso Carver disse una volta che al centro del suo lavoro stava la volontà di rappresentare “the dark side of Reagan’s America”, e questo è vero tanto nella raccolta del 1981 quanto in quella del 1983. Se il problema è lo stesso, semmai, ciò che cambia è la soluzione a questo problema: in “Cathedral”, e sto semplificando al massimo, compare una risposta spirituale, empatica, che in “What we talk about” era del tutto assente e che sarà invece ulteriormente sviluppata nell’incompiuto “Elephant” (1988). Presa per buona questa sommaria storicizzazione della poetica carveriana, però, ci si rende conto di un’altra cosa. Se è vero che il Carver del 1981 è portatore di una visione degli uomini e della società sostanzialmente cupa e priva di speranze, la comparazione tra manoscritti e testi editati rende palese come il lavoro di Lish sia andato proprio nella direzione di una estremizzazione di questa cupa freddezza. Risultato dell’equazione: era lo stesso Carver del 1981 a possedere in nuce una cosa che Lish ha, semmai, saputo portare alle estreme conseguenze; Gordon Lish, almeno da questo primo punto di vista, ha semplicemente fatto bene il suo lavoro, niente di più.


Terzo. Visto che però le cose non sono mai semplici come sembrano a un primo (e anche a un secondo e terzo) sguardo, anche volendo concentrare l’attenzione sul tema dell’editing in sé mi pare sia necessario fare alcune distinzioni tra aspetti differenti del lavoro editoriale e racconti differenti della stessa raccolta. Al workshop, per esempio, ci si chiedeva se è meglio riuscita la versione originale o la versione editata di “Why don’t you dance?”. In questo caso personalmente tenderei a dire che è più riuscita la versione editata, e questo sostanzialmente perché è più buia e violenta, avendo prima constatato che il buio e la violenza sono temi portanti in “What we talk about”: la luce della “stella” che si legge nella versione editata è infatti molto più fredda e distante di quella della “stella della sera” presente nel manoscritto. Se però ci si sposta su altri racconti le cose cambiano. Per esempio in “So much water so close to home” il lavoro di editing taglia completamente il lungo monologo di Claire sul suo passato sentimentale, senza il quale, mi sembra, il racconto diventa pressoché incomprensibile. Quindi è meglio il Carver-con-Lish o il Carver-senza-Lish? La risposta è: dipende. Anche perché su questo tema mi viene spontaneo chiedermi (e qui siamo al “dark side of Gordon Lish’s work”) qual è il criterio che l’editor ha utilizzato per tagliare alcuni brani invece che altri. Si è trattato di un criterio strettamente estetico? Nel caso di “Why don’t you dance?” sembrerebbe di sì. Oppure si è trattato di un criterio più legato a logiche editoriali e di mercato? Cioè: il monologo di Claire viene tagliato perché non funziona (a me pare funzioni benissimo) o perché ciò che Lish intendeva proporre attraverso il suo autore un tipo di letteratura nuova, superficiale proprio nel senso di superficie, fredda, anti-psicologica, nettamente distante dalla letteratura dei grandi viaggi intrapsichici che aveva caratterizzato la stagione sperimentale della narrativa statunitense negli anni Sessanta e Settanta (e qui ricordo solo en passant che questi sono anche gli anni dell’“Io minimo” di Christopher Lasch, il che mi fa pensare che questa supposizione non sia del tutto infondata)? Anche questo è un aspetto che mi pare interessante e di cui non ho mai sentito parlare con profondità e competenza.

In chiusura dell’articolo lascio, per consultazione, due link: il primo a uno dei due racconti che ho portato in veste di “autore” (virgolette virgolette virgolette) al workshop del 24 ottobre 2010; il secondo allo stesso racconto riscritto cercando di seguire quanto più fedelmente possibile i suggerimenti e le suggestioni che mi sono venute durante il lungo dibattito da Nicola Lagioia e dai corsisti: perché continuo a credere, a conti fatti, che sia più efficace mostrare che raccontare e nella speranza che questa piccola testimonianza concreta possa essere utile a chi intende affacciarsi sui temi complessi della scrittura e dell’editing letterario.

Link 1: Big Babol, prima versione

Link 2: Big Babol in versione editata



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Gianluca Didino ha partecipato come "scrittore cavia" al workshop di editing con Nicola Lagioia dopo aver vinto la prima edizione del concorso "Le parole giuste" del laboratorio di scrittura di minimum fax, con il racconto Elefante.
Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste letterarie, fra cui Eleanore Rigby e Famlibri.
Boring machines disturb sleep è il suo blog.

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